Oggi Stay. è Serge de Sazo che racconta perché il bikini fa ancora scandalo e non è simbolo di emancipazione
di Paola Sireci
Caro lettore,
questo è l’ultimo editoriale prima della pausa estiva! Grazie per per averci letto e speriamo di averti tenuto compagnia in questi mesi ma, ATTENZIONE, Stay. non va in vacanza! Il mese di agosto sarà interamente dedicato alla pubblicazione, suddivisa in parti, di un racconto firmato da Teresa Giannini. Non sai cosa leggere sotto l’ombrellone? Iscriviti!
Un mese fa è iniziata la stagione estiva e, con lei, anche la sfilata del costume da bagno più originale, colorato e sensuale, che esalti le donne in ogni loro forma. Alzi la mano chi non ha mai indossato un bikini che non valorizzi il lato b scolpito, il colore della pelle, del viso e dei capelli, il seno prorompente o il fisico tonico. Ogni donna, in fondo, ama essere apprezzata, ammirata per il suo fascino, eleganza, sensualità o semplicemente piace sentirsi a proprio agio con sé stessa ma quando questo comporta essere osservata con insistenza, invadenza e veemenza, può essere considerato un complimento?
Nel 1946 l’ingegnere Luis Réard decide di dedicarsi al negozio di lingerie della madre e mette a punto il costume più piccolo prodotto nella storia della moda: il bikini. Concepito con l’idea di successo paragonabile all’impatto corrosivo dell’atomico, bikini prende il nome dall’atollo omonimo situato nel Pacifico in cui venivano condotti assiduamente esperimenti nucleari e fu indossato per la prima volta dalla ballerina di nudo Michelle Bernardini. Al momento del suo esordio il bikini non ottiene grande successo, tanto che in molti Paesi europei e in alcuni Stati Uniti l’indumento estivo viene vietato e, addirittura multato, come dimostra la famosa fotografia, con autore anonimo, pubblicata solo nel 2016 dal Ney York Times che raffigura un poliziotto durante la sanzione di una ragazza che indossa il bikini. Tuttavia, nonostante l’esito iniziale, alla fine degli anni Quaranta il suo successo esplode e attrici e modelle sfoggiano il capo rivoluzionario con sfrontatezza, sensualità e orgoglio: il bikini ottiene il potere corrosivo di una rivolta, dando uno schiaffo alle norme sociali preesistenti soprattutto legate al pudore femminile, segnando il momento esatto nel quale le donne cominciano a essere padrone del loro corpo e, allo stesso tempo, in cui il corpo femminile comincia a essere sessualizzato ed esibito sulle prime pagine dei rotocalchi.
Il bikini non è solo un fenomeno sociale ma anche artistico. Una storia parallela è fatta di celluloide, dive del cinema, occhiali da sole, letteratura e pose davanti la macchina fotografica. Dentro, pescando a caso c’è Lolita, alias Sue Lyon con occhiali da sole nel capolavoro di Kubrick, Brigitte Bardot e una manciata di titoli, tra cui “Girl in the Bikini”, cuciti addosso per celebrare una nuova icona, sorridente, in riva al mare, con costumi a stampa floreale, a pois. Ci sono film famosi quasi solo per la locandina come “One Million Years B.C” del 1966 che vede Raquel Welch in un succinto e atipico costume di pelliccia e, in un universo cinematografico ancora popolato da Bond Girls, c’è una statuaria Ursula Andress mentre emerge dall’acqua in “007 Licenza di Uccider”e del 1962. C’è Jane Birkin boho-chic che fissa l’obiettivo della macchina fotografica con un micro-top e Audrey Hepburn in due pezzi di uncinetto e occhiali formato XL in linea con il trend futuristico dell’epoca, fotografata da Terry O’Neill. E ci sono anche fotografi come Helmut Newton o Slim Aarons che raffigurano corpi statuari di modelle ispirati dall’audacia del bikini.
Tra virtù e condanna il bikini si è identificato l’indumento più rivoluzionario ed emancipato della storia della moda, conferendo sicurezza e femminilità a chi lo ha indossato per la prima volta ma, allo stesso tempo, dando il via al processo di sessualizzazione più virile e vile di cui ancora oggi subiamo l’influsso. E, di fatto, lo scatto di Serge de Sazo che apre l’editoriale, ne è rappresentazione: sguardi indiscreti, quasi accusatori verso quella presa di posizione e senso di libertà manifestata da un gesto normale come indossare quello che si vuole. Ma, andando ancora più a fondo, era necessario - e lo è ancora oggi - scoprire il corpo femminile per sentire la voce delle donne? Davvero ottenere la libertà deve essere parte di un movimento che rende le donne, prima partigiane, e poi soldatesse di un sistema in cui l’emancipazione è legata alla nudità?
Forse la convinzione che la riposta a queste domande sia positiva rende cieca una realtà tanto triste quanto scomoda che vede ancora oggi scalpore e malizia nel mostrare il corpo femminile in spiaggia con costumi più o meno succinti, gesto oggetto di sguardi invadenti e indiscreti da parte di uomini e donne che rendono solo illusorio quel concetto di libertà che ci trapanano nelle orecchie fin da quando siamo bambine attraverso messaggi e gesti che mettono in mostra il corpo delle donne a discapito della loro parola.
Ehi, aspetta un attimo! Un assaggio di ciò che abbiamo scritto questo mese 😉👇🏻
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