Il Sogno di Henri Rousseau
Caro lettore, sarebbe un peccato iniziare a guardare un film dal secondo tempo, sei d’accordo? Quella di seguito è solo la seconda parte del racconto breve di Chiara Rebeggiani: non perdere i primi due capitoli! 😉
Il buio in fondo all’anima
di Chiara Rebeggiani
Tre.
A Marrakech Carlo regalò una reggia di diversi acri a Isabella. Quando Isabella la vide rimase meravigliata e Carlo aveva puntato proprio a quella espressione sempre prima shh e poi wow. Il palazzo, in pieno stile marocchino, sembrava uscito dai racconti delle Mille e una notte.
Non era stata una cosa vista, piaciuta e comprata. Carlo, da bravo calcolatore, l’aveva pensata notte e giorno, per affari si era recato a Marrakech, aveva poi incontrato architetti, designer di giardini e aveva dato così sfogo alla sua fantasia per la moglie. Voleva un giardino, ma non uno qualunque, lui voleva una piccola riproduzione della giungla dipinta da Henri Rousseau a fare da cornice all’immensa tenuta. Incontrò così vari esperti botanici per farsi consigliare al meglio su piante tropicali quelle che puoi trovare solo in mondi inabitati. Si fece importare diverse tipologie di semi e con l’aiuto di diversi chimici li innestò per creare degli ibridi.
Una volta superato il cancello un largo viale piastrellato correva su per ettari di giardino; per raggiungere il palazzo bisognava obbligatoriamente percorrere a piedi un tragitto che correva all’interno di un palmeto e, come ultima tappa, un’ampia piscina a sfioro di un colore verde smeraldo e poi un ultimo stretto viale su fino alla tenuta rosso ruggine. Le tende lunghe e bianche fuori dalla veranda si gonfiavano come vele, respiravano e poi si distendevano e dopo l’ultimo sbuffo delle tende si accedeva alla casa.
Ma la giungla-giardino di Carlo per sua moglie era qualcosa che mi riuscirà abbastanza complicato descrivere. Ci sono cose nella vita, odori e sensazioni, che superato lo stupore, ma forse anche per via di esso, sono difficili da mettere su carta. Dietro la tenuta il gioiello verde per Isabella iniziava il suo spettacolo con un piccolo giardino giapponese ,un piccolo sentiero sospeso sull’acqua con fiori di loto… ho creduto per un momento di aver visto giocare le ninfe in quel gioiello, c’era un profumo intenso di fiori esotici che mandavano in tilt i sensi e in un momento non eri più lì, eri in Polinesia o in Papua Nuova Guinea o altrove ma non lì; e gli abitanti di quel polmone verde proliferavano tutto intorno indisturbati e quasi ti sentivi a disagio tra loro per non essere parte di quel miracolo.
Quattro.
La prima volta che vidi il giardino era sera; Carlo e Isabella avevano dato una festa. Nella corte principale si sentiva vociare; gli ospiti erano in piedi sparsi un po’ ovunque in abiti da sera sfavillanti, aspettavamo tutti un po’ a disagio i nostri amici. E poi la vidi… bella come un cigno, col suo abito di seta di un bianco candido, il suo collo lungo con le linee perfette che sorreggeva una testa di capelli biondi raccolti in uno chignon, il viso delicato, gli occhi due gemme blu, le labbra sottili e rosse, pochi gioielli essenziali. Carlo che era già tra noi gli si fece dappresso porgendogli la mano. Lei era per tutti noi il nostro shh e wow più bello in assoluto.
Cinque.
Carlo voleva farla felice e non riusciva a capire perché, nonostante tutto quello che le aveva dato, non riusciva a vederla serena.
Quando la sera si incontravano sotto le lenzuola e facevano l’amore lei lo amava con una passione viva quasi implacabile, lo amava con la mente e con il corpo e lui rispondeva quasi sempre con il suo modo di amarla più freddo e impacciato all’inizio, poi quasi violento come per scuoterla e prendere il sopravvento sul suo caos interiore. Alla fine il risultato era sempre lo stesso, Carlo esausto quasi svuotato di ogni sentimento e lei girata sul fianco piangeva in silenzio.
Al mattino lasciava che si svegliasse sempre senza la sua presenza accanto.
Quando lo raggiungeva in veranda per la colazione non aveva il coraggio di sfiorarla neanche con lo sguardo. Neanche quando lei senza pensarci passandogli accanto sfiorava la sua nuca con le dita. Il punto era che Carlo, uomo tutto di un pezzo, si vergognava di sé stesso. Si vergognava perché non riusciva ad arrivare al cuore del problema, o forse al cuore della moglie in generale.
Isabella, dal canto suo, sapeva benissimo cosa c’era nel suo cuore, e anche se quando faceva l’amore con suo marito esplodeva di passione per lui e forse lo faceva per colmare il suo vuoto profondo, poi non riusciva più a controllarsi sicché alla fine del rapporto scoppiava in un pianto rabbioso.
Quella vita non la completava, questo era il problema che Carlo non concepiva, né tantomeno coglieva. Forse lui si sforzava, ma non così tanto, per lui la felicità era più materiale: una bella casa per godersi il suo tempo libero, le sue macchine d’epoca, i suoi giocattoli e Il suo gioiello… Isabella. Ma il suo gioiello con gli anni andava perdendo la brillantezza. Lui cercava di lucidarlo per farlo tornare a brillare donandole quello che riteneva fonte di felicità, oro, case e quel maledettissimo giardino di Marrakech.
Quella sera al party si respirava un’atmosfera frivola. Col calar della sera le danzatrici presero a ondulare i loro bacini a ritmo di tamburi e flauti intorno alle nostre figure rigide ed eccitate, con le loro gonne tintinnanti di gioielli finti e gialli e il viso semicoperto da veli colorati. La musica si fece più alta e le danzatrici attirarono con le loro danze del ventre gli uomini che avanzavano nel cerchio che le ballerine avevano formato, offrendo piccole gemme rosa di mano in mano, poi di lingua in lingua e in un attimo ci trovammo in un’atmosfera surreale. Isabella giaceva su un grande divano accerchiata da donne con lunghe dita inanellate che tenevano i loro flûte svogliatamente, con sguardi persi o sognanti, cercavo di tenerla sempre d’occhio anche da lontano. La raggiunsi. Come mi guardò lei quella sera non me lo scorderò mai e soprattutto non scorderò ciò che vidi in quegli occhi. Ero abbastanza lucido e lei anche, forse eravamo gli unici ad esserlo. Mentre parlavamo, lei era in posa come un cigno, una divinità, una statua. Parlammo per ore e lei era così spontanea, la sua risata era musica per le mie orecchie, mi porse la mano e mi condusse nel giardino. Negli angoli più nascosti sentivamo sospiri e gemiti degli invitati appartati. Svoltammo un angolo e lei per un attimo si accigliò, intravide la giacca di Carlo a terra e poi ancora la sua risata seguita da un gemito di piacere, poi il suo viso si distese di nuovo. Non so se lo faceva apposta o se era un movimento naturale il suo, quello di prendere questa posa eretta con il viso semi girato e aspettare che succedesse qualcosa. Ero drogato da tanta bellezza, non sapevo come prenderla, avevo paura di rovinare quel quadro bellissimo. Facemmo l’amore per tutta la notte e in modo così intenso. Dico, facemmo l’amore perché quello non fu sesso di una notte, lei sapeva amare e basta. Lei m’ insegnò ad amare. E io detti tutto me stesso. Volevo vivere fino in fondo quel sogno.
In quella notte al fianco di Isabella, mentre la guardavo riposare, mi accorsi di una figura che da lontano guardava i nostri corpi nudi e bianchi illuminati dai raggi della luna. La figura prese ad avvicinarsi ma con l’oscurità non riuscii a distinguerne bene i tratti.
Sei.
Alle 4.45 di quel mattino in cui Isabella si destò viva e perfettamente cosciente della sua vita. Quello fu lo stesso mattino in cui si rese conto di aver vissuto aggrappata ad un sogno o a una realtà parallela, che le aveva permesso di fuggire. Quando riprese letteralmente i sensi e un po’ stordita si alzò dal letto cercò nelle stanze accanto, Elizabeth, sua figlia, che per anni aveva guardato l’andamento della vita di sua madre come si guarda un quadro bellissimo un po’ meravigliata e un po’ inorridita. Le prese il viso fra le mani e le baciò la fronte. La strinse a sé mentre alcune lacrime le rigavano il viso.
Nella mia vita ho conosciuto tante persone come Isabella, con le loro vite apparentemente perfette, ma quello che mi ha sempre dato la certezza del contrario è l’ aver guardato dentro i loro occhi e aver scoperto il loro buio in fondo all’anima. E ora che mi trovo davanti allo specchio nella mia casa, seduto alla scrivania con questo piccolo blocchetto di fogli in mano, pensando di aver scritto il capolavoro della mia vita, non so dirvi quanta luce c’è poi in fondo alla mia di anima.
Isa mi manchi.
Ci vediamo a settembre con Stay. Postcard dal mondo… Stay tuned!