Chi mi conosce da tanti anni sa le mie origini sicule e sa che, ogni anno, in estate, vado in Sicilia per un periodo di tempo abbastanza lungo: fino all’adolescenza la mia permanenza era di un mese circa, quando ho cominciato a lavorare e a viaggiare ho preso l’abitudine di dedicare alla mia Isola poche settimane, giusto il tempo per ricongiungermi con i miei genitori e con i miei familiari. Grazie a loro ho scoperto cosa significhi essere siciliana, sebbene il destino geografico mi abbia collocata in Piemonte per ben 24 anni mentre, per i restati 6 Roma mi ha adottata. Insomma, in questo melting pot culturale, le mie origini sicule vengono portate a galla quando entro in contatto con la mia terra familiare, nel periodo che trascorro in Sicilia tra meraviglia, contrasti e dissapori. Ma su questo punto torno più tardi.
La domanda che, però, mi sono fatta quest’anno, tornata dalle vacanze e che in fondo è sempre stata una consapevolezza negli anni addietro è “Ma io avevo mai visto e soprattutto vissuto la Sicilia fino a questo momento?”. Effettivamente oserei direi di no, considerando che i miei genitori sono originari di due paesi di montagna che si trovano sulle Madonie, la catena montuosa che abbraccia la provincia di Palermo che si trova nell’entroterra che, paesaggisticamente parlando è ben diversa dall’idea isolana che si ha della Sicilia, fatta di mare cristallino, spiagge dorate e un panorama storco infinito. Eppure la Sicilia è anche questo, soprattutto questo, un insieme di sfumature, di caratteri, paesaggi, cibi, accenti, temperamenti, climi differenti che la rendono l’isola bastarda per eccellenza. Ed è proprio lì che risiede la sua bellezza e il suo punto di forza.
Ho avuto a disposizione dieci giorni per esplorare e vivere le zone che non avevo mai visto in ventinove anni di via vai dal nord al sud, toccando la provincia di Trapani, Agrigento, Ragusa, Siracusa, addentrandomi nei posti più instagrammabili, fino a immergermi e tenere un po’ per me con gelosia quelli meno conosciuti.
Trapani, tra “pane cunzato” e tramonto
Per i meno esperti il pane cunzato è una ricetta tipica del trapanese – chiamarla ricetta è un eufemismo- che consiste nel pane caldo ripieno di pomodorino, caciocavallo, alici, origano e olio, quest’ultimo q.b. (regola fondamentale della cucina sicula!). Nei miei tre giorni di permanenza a Marsala credo di aver mangiato più pane cunzato che supplì a Roma in sei anni che ci vivo. In questa zona, effettivamente, la vicinanza con il capoluogo si fa sentire nella cucina, ricca di pietanze da street food come arancine, rosticceria e panelle, nel temperamento avvolgente delle persone e anche nell’accento aperto, tipico palermitano. Il mio viaggio comincia alle Saline di Marsala, uno dei posti più pittoreschi che esistano in Italia dove il tramonto si colora di rosa e il riflesso del sole rimbalza nelle vasche delle saline come un quadro impressionista e si nasconde dietro l’isola di Favignana. Unita nota negativa: il sovraffollamento turistico che lascia poco spazio alla contemplazione.
Una grande parentesi la voglio dedicare alla seconda tappa, l’isola di Favignana, sicuramente molto conosciuta grazie all’esperienza diretta delle persone ma anche dei Tiktok che non le rendono giustizia, nascondendo, dietro “le 20 cose da fare a Favignana in un giorno” o “ dove affittare il gommone a Favignana” la ribellione di quest’isola, che di perfetto ha solo il mare cristallino difficile da raggiungere attraverso le cale rocciose e ripide. Girandola in bici ho sentito gli odori, ho incontrato gli isolani, ho visto le sfumature dei raggi che battono sulla terra, sui muri delle case, sugli alberi, ho attraversato scavi archeologici e strade sterrate, come anticamere del paradiso: le cale e le spiagge diventano, infatti, piccole oasi e punti di sosta dove metabolizzare e assaporare la fatica dell’esplorazione. Il mio tour nel trapanese continua a Marsala, città di origine araba, che ospita resti fenici – ne è la dimostrazione l’isola di Mozia– e il nome stesso, Mars-Allah (letteralmente tempio di Dio) dato dai Fenici quando sono stati cacciati da Dionisio dall’isola di Mozia. Carico lo zaino in spalla per la prossima tappa.
Agrigento, capitale della cultura del mio viaggio, ma prima….
Prima di arrivare nella capitale della cultura 2025, ho fatto una sosta memorabile a Mazara Del Vallo conosciuta a me, fino a questo momento, solo per il rapimento della piccola Denise. Al contrario della narrazione giornalistica che la rappresenta da sempre come una parentesi siciliana nota solo per questo oscuro caso di cronaca nera, questa città è un palcoscenico arabeggiante, non per l’architettura, quanto per la sua essenza, che si esprime nella tintura tunisina della sua Kasbah, caratterizzata da vie strette simili alle medine tunisine e marocchine. Insegne bilingue e popolazione araba la rendono il luogo perfetto per un incontro culturale volto a confermare la forte identità araba presente in Sicilia. Chiamata la città delle cento chiese, vanta di una ricca varietà di chiese per stile e dimensioni.



Dalla Valle dei Templi alla casa di Pirandello
La tappa mediana del mio tour ferma ad Agrigento, capoluogo di provincia famoso non certo per il suo centro storico, sicuramente pittoresco come tutte le città dell’Isola, ma per l’energia che le ruota attorno. Dalla Valle del Templi, grande gioiello ellenico che affonda le radici in Trinacria, alla casa di Pirandello, luogo ancora troppo sconosciuto, fino alla riserva naturale di Punta Bianca e la spiaggia di Siculiana con il suo mare smeraldo e cristallino, l’agrigentino si è rivelato, ancora una volta la sosta perfetta per spezzare il lungo viaggio verso la parte sud-orientale della Sicilia, dove ho lasciato il cuore.





Il Trio Barocco: Ragusa, Modica e Noto
Spostandomi verso sud, in linea d’aria con Tunisi, il paesaggio cambia: distese immense di ulivi, terreno secco, clima ventoso, mare nettamente più cristallino e spiagge selvagge, sono il contorno perfetto di un entroterra artisticamente ricco di tradizione. Ragusa, Modica e Noto sono le perle del Barocco siciliano, città incastonate nella roccia con piccole stradine tipicamente sicule che, per chi come me conosce bene l’entroterra, non dicono nulla di particolarmente significativo se non fosse per le centinaia di Chiese imponenti, formose, e accoglienti come le donne siciliane, che uniscono le vie facendo pulsare il cuore delle città.


Ultima tappa del viaggio, dove la Sicilia diventa se stessa
Le cose più belle sono quelle che si fanno attendere e, del resto, è stato così anche per il mio tour siciliano, al quale ho dedicato gli ultimi tre giorni per esplorare la zona che più mi sentivo mia, dai racconti delle altre persone. Ed effettivamente nella zona che parte da Punta Secca, piccolo borgo di pescatori, noto nei romanzi di Camilleri dove il suo commissario Montalbano si muove senza scrupoli, fino alla Riserva di Vendicari, ho sentito quella che è la vera essenza della Sicilia: sole cocente, ulivi che regalano fette d’ombra, odore di pesce appena pescato, mare cristallino, tramonti dipinti a mano con la polpa dei pomodori di Pachino e vegetazione selvaggia, così tanto da renderla inavvicinabile. Sarà per questo che è stata la zona in cui ho visto meno turisti, per essere la settimana dopo Ferragosto. In particolar modo, due sono stati i luoghi in cui ho lasciato il mio cuore: Porto Palo di Capo Passero e, in particolare Punta delle Formiche, luogo tanto naturale quanto ricco di significato storico e la Riserva di Vendicari, in particolare il percorso faunistico tra la spiaggia di Vendicati e Calamosche, un’ora di trekking su un tappeto rosso contrastante a una finestra cerulea dove l’unico suono è il mare che si infrange sulla scogliera. Il vento di questa zona accarezza e schiaffeggia allo stesso tempo, il sole riscalda e brucia e il mare culla come una madre che prende in braccio i propri figli.



La Sicilia fa questo, si prende cura dei suoi figli biologici e adottivi con la dolcezza del pistacchio, della ricotta e della pasta di mandorle, con l’austerità del caldo torrido, con l’acidità dei suoi agrumi, con la gagliardia delle spezie e con l’accoglienza della sua gente, gentile e sfrontata. La meraviglia della sua arte, la varietà delle influenze culturali e la contraddizione degli elementi naturalistici la rendono una terra gentile e bastarda, con un’identità così forte che anche se fosse disabitata avrebbe. La Sicilia è la terra di tutti e la terra di nessuno.