Oggi Stay. è Rubina Paradisi che cattura l'essenza della moda indigena: emblema identitario e terreno di lotta contro l'appropriazione culturale.
La Fashion Week milanese, tenutasi dal 21 al 27 febbraio, ha ospitato per la prima volta quest’anno una delegazione di sei artisti indigeni canadesi che hanno presentato le proprie creazioni all’interno del White, il trade show nel cuore del Tortona Fashion District. Sotto la direzione di Sage Paul, direttrice artistica ed esecutiva, nonché fondatrice dell’IFA (Indigenous Fashion Arts), i sei designer native (Lesley Hampton; Erika Donovan; Evan Ducharme, Justin Louis; Robyn McLeod e Niio Perkins) hanno portato il proprio lavoro e la propria concezione di moda fortemente legata ai concetti di sostenibilità e di identità culturale. Rubina Paradisi (in arte Wild), fotografa free lance, studiosa e sostenitrice della cultura indigena, era presente ed ha realizzato uno splendido mini-reportage fotografico che ha per protagonisti i designer e le loro suggestive creazioni.
Attraverso i suoi scatti Rubina cattura l’essenza della moda indigena che, attingendo al proprio folklore, lo rivisita in chiave contemporanea. Una meravigliosa collisione in cui il presente ed il passato si incontrano e si confondono per dar vita ad abiti ed accessori che non sono solo bellissimi, ma che, come affermato da Paul in un’intervista rilasciata a Vogue, sono anche “una forte rappresentazione di ciò che significa essere indigeni”. Una ventata di autenticità in un settore, come quello della moda, in cui lo scimmiottamento grossolano di modelli e di pattern etnici è sempre dietro l’angolo.
L’iniziativa, promossa dall’IFA, ha potuto contare inoltre sul supporto del Canada Council for the Arts, del Department of Canadian Heritage e dell'ambasciata canadese, ed è da considerarsi come parte di un percorso di riconciliazione fra il governo del Canada e la cultura Native. Un percorso che ha certamente subito un’accelerazione in seguito allo scandalo legato al ritrovamento dei resti di oltre 1.381 bambini indigeni sepolti in sei ex scuole residenziali, avvenuto fra il maggio di due anni fa e la fine del 2021.
Un secolo e mezzo di soprusi
Le scuole residenziali, attive fra il 1870 e il 1996, avevano come scopo l’assimilazione culturale e sociale forzata delle popolazioni aborigene ed erano solo uno dei numerosi strumenti di controllo e di vessazione ai danni dei Native. La vita degli indigeni in Canada infatti era ed è tuttora essenzialmente controllata dal controverso “Indian Act” che da quasi un secolo e mezzo regola la governance, il controllo del suolo, l’istruzione e moltissimi altri aspetti fondamentali della vita degli aborigeni canadesi (Prime Nazioni, Inuit e Métis).
Attraverso l’ Indian Act il governo si arroga inoltre il diritto di stabilire i criteri secondo i quali i nativi possano godere dell’ indian status, con tutti i benefici e le restrizioni ad esso correlati. Uno status che un tempo, precludeva ai nativi la possibilità di ottenere la piena cittadinanza canadese, con tutti i diritti ed i privilegi che questa avrebbe comportato naturalmente.
Il corpus di leggi è stato aspramente condannato in passato da organizzazioni umanitarie che si battono per la difesa dei diritti umani, in quanto promotore di una vera e propria politica segregazionista ai danni degli indigeni canadesi. Un sistema che non non solo ricorda l’apartheid ma che, diversi anni fa, ne costituì addirittura il principio ispiratore. Il governo sudafricano negli anni 40, ispirato da ciò che lesse sull’Indian Act e dopo aver esaminato il sistema delle riserve indiane del Canada (Indian Reserve System), modellò diversi elementi dell’apartheid proprio sul sistema canadese.
Sebbene, dalla promulgazione dell’Indian Act sino ai giorni nostri, siano stati approvati numerosi emendamenti che ne hanno certamente limitato la portata repressiva e discriminatoria, l’eredità coloniale è qualcosa con cui gli indigeni devono ancora purtroppo fare i conti. Gli effetti del colonialismo, come in molti ingenuamente credono, non si sono estinti con la mera espropriazione territoriale forzata avvenuta dopo la scoperta dell’America, ma perdurano e si riflettono in moltissimi aspetti della vita degli indigeni che continuano tuttora a subire una ben più dolorosa espropriazione culturale.
Il colonialismo contemporaneo e l’appropriazione culturale
La cultura indigena, esautorata dalla cultura “dominante” dalla propria dignità e dal proprio significato, continua ad essere strumentalizzata per squallidi scopi di marketing. Il colonialismo contemporaneo lucra sulla cultura Native attraverso l’adozione indebita di elementi e di simboli che appartengono al patrimonio indigeno. Una forma di prevaricazione e di spoliazione, che prende il nome di “appropriazione culturale”.
Per rendersi conto della portata del fenomeno è sufficiente rivolgere per un attimo la nostra attenzione agli Stati Uniti d’America dove, sebbene la presenza indigena rasenti un misero 1%, i simboli legati ai cosiddetti “indiani” d’America sono praticamente ovunque, tanto da essere divenuti una parte inestricabile del vocabolario visivo collettivo del Paese. Le rappresentazioni, tutt’altro che lusinghiere, sono caricaturali, parodistiche ed offensive. Basti pensare che uno dei modi in cui la figura degli indiani si trova maggiormente rappresentata negli Stati Uniti è quello della mascotte. Gli indiani con i copricapi piumati, le mascotte nelle squadre di football piuttosto che i teepee utilizzati come location esotiche di ristoranti di dubbio gusto sono tutti simboli di una narrativa europea-americana che non solo travisa completamente i valori della cultura indigena, ma li mette in ridicolo. Qualcuno potrebbe obiettare che, in fondo, non si copia qualcosa se non la si ama, ma è proprio qui che sta l’errore. Tendiamo a confondere troppo spesso il concetto di amore con quello di possesso. Amare qualcosa non significa possederla, avvalendoci ed appropriandoci di simboli che non ci appartengono. Amore vuol dire, prima di tutto, comprensione e rispetto. Vuol dire capire che le immagini e le rappresentazioni falsate dei nativi contribuiscono non solo alla perpetrazione di stupidi stereotipi e cliché, ma anche alla crescita di un senso di alienazione e di disagio fra gli indigeni che vivono dimenticati e ghettizzati in riserve in cui il tasso di suicidi e di morti legate all’abuso di alcol è altissimo.
Ripartire dal linguaggio
Cosa possiamo fare dunque in reale segno di rispetto e di apprezzamento verso la cultura Native? Dovremmo innanzitutto ricordarci che il linguaggio ed il suo corretto utilizzo rivestono un ruolo fondamentale. Riformulare le parole con le quali ci approcciamo a certi concetti, partendo proprio dall’appellativo di “indiani”, un termine razzista che affonda le sue radici semantiche nel colonialismo, può non solo restituire dignità alla causa indigena, ma anche costituire un primo passo verso un percorso di avvicinamento alla cultura Native attraverso le parole e le testimonianze dei suoi esponenti.
Una conoscenza che vada ben oltre quella profusa dalla narrazione occidentale con i suoi film western e i suoi romanzi di genere a buon mercato che hanno per protagonisti cowboys e grandi capi indiani. Una conoscenza che ci permetta di rispettare e amare la fierezza, la ricchezza culturale e la saggezza di questo splendido popolo che si cela dietro lo stereotipo dell’ “indiano” cosparso di piume.