Oggi Stay. è Rob Silverman che denuncia la perdita dell'intimità individuale. Social, orgoglio genitoriale e ossessione da condivisione
Le foto e i video dei figli intasano la gallery dei loro smartphone, i loro profili sono archivi dettagliatissimi di ogni fase della giovane vita che hanno dato alla luce e fanno, della prole, l’ennesimo hashtag di tendenza. Sono i genitori dell’era social: vittime del bisogno di esorcizzare la paura del nuovo ruolo o colpevoli di un eccesso di orgoglio?
Si chiama sharenting o, ancor più precisamente, over-sharenting (espressione, coniata negli Stati Uniti, formata da parenting “genitorialità” e share “condivisione”) e indica la tendenza smodata e continuativa, da parte di genitori, a condividere foto e video dei propri figli. Per quanto questo possa sembrare un atteggiamento tutto sommato innocuo, nasconde in realtà insidie morali, etiche e giuridiche poco trascurabili e, laddove interessi famiglie di influencer, il discorso diventa ancora più complesso, caricandosi di risvolti anche economici.
Apparentemente tutti contrari al controllo da parte di terzi
La letteratura, il cinema e il piccolo schermo ci hanno abituati alle storie di persone e comunità che subiscono, consapevolmente o inconsapevolmente, una costante violazione della propria privacy. Dai romanzi distopici come 1984 di George Orwell, ai film o serie TV come The Truman show e Il prigioniero, ai programmi televisivi tipo Grande Fratello e derivati, il tema dell’occhio spia, che registra ogni momento della nostra quotidianità, ha guadagnato sempre più rilevanza nel dibattito culturale.
Certo che inquadrare la questione nella cornice di questi esempi, in cui sono regimi dittatoriali o sedicenti organizzazioni governative o ambigue realtà aziendali a invadere soventemente la sfera intima delle persone, rende facile schierarsi dalla parte di chi subisce l’ingerenza e difendere a spada tratta il loro diritto alla privacy (oltre alle altre, ovvie, libertà individuali). Probabilmente nessuno sposerebbe l’idea di far crescere un bambino, a sua totale insaputa, nella cittadina fittizia di un reality (come succede appunto al protagonista del The Truman show, ritratto nell’opera che apre questa edizione).
Ma che succede se le “telecamere” sono di mamma e papà?
Arriva la social smania a rendere la situazione più controversa, perché se non si tratta di personaggi avidi di potere e ricchezza a violare la nostra intimità, ma di genitori amorevoli che vogliono semplicemente condividere la gioia dei propri figli tramite post e storie, l’opinione pubblica non è così compatta e rigida. Ad eccezione di casi patologici particolari, il sogno di ogni genitore è infatti essere un buon genitore. Ciò significa, almeno in parte, proteggere il benessere del proprio bambino e mai e poi mai esporlo consciamente a rischi inutili. Ogni neo mamma e neo papà avverte nella propria coscienza tale imperativo e proprio questo fa desistere dall’accusarli di un qualsiasi genere di abuso nei confronti della progenie.
Eppure il dilagare online di immagini e video dei più piccoli non può non destare qualche perplessità. Che si tratti di una moda passeggera o meno, l’estensione del fenomeno ne rende interessante (al fine di svelarne eventuali tratti d’ombra) l’interpretazione psicologica, sociale e legale.
La locandina ideata da Rob Silverman – che disegna il viso di Truman (interpretato da un grandioso Jim Carrey) accostando centinaia di frame tratti dalla registrazione continua della sua vita da parte delle telecamere – denuncia esattamente la diabolica demolizione di quel segreto naturale, appartenente ad ogni persona, che è l’intimità e che genitori poco attenzionati possono mettere a repentaglio.
Comprendere le radici dell’over-sharenting
Il primo passo è capire cosa spinga il genitore a documentare con zelo compulsivo ogni momento della vita del figlio, dal test di gravidanza alla prima ecografia, ai primi passi e via discorrendo. Le ragioni principali possono essere ricondotte fondamentalmente a due, ma il primo dato da considerare è che la combinazione di smartphone e social network, porta inevitabilmente ad una sovrapproduzione di contenuti multimediali e ad una certa frequenza di condivisione. I social sono infatti la vetrina perfetta, un campo (a cui si accede con estrema facilità e rapidità) su cui misurarsi e, soprattutto, incontrare l’approvazione dell’altro.
La foto, o il video, non è più solo testimonianza, ma anche dimostrazione dell’individualità e del suo valore, richiesta implicita di sostegno e ricerca costante di gratificazione.
Da un lato emerge quindi una chiara componente narcisistica: le mamme e i papà sono così orgogliosi del fagotto portato dalla cicogna (il più bello, dolce, simpatico e sveglio), da non riuscire a evitarne l’ostentazione. Da un altro punto di vista, a giudicare dal proliferare di gruppi online su cui i neo genitori si confrontano su problematiche comuni, si scorge invece il bisogno di ridurre le preoccupazioni e le ansie del nuovo ruolo che questi sono chiamati a ricoprire – in un’epoca molto più complessa di quella in cui la maggior parte di loro è probabilmente nata e cresciuta e in cui l’aspirazione alla perfezione pervade prepotentemente tutte le sfere del vissuto.
Al centro di troppa attenzione: le ripercussioni sul bambino
In un recente articolo, Save the children ha allertato le neo famiglie sui pericoli, corsi dai pargoli, direttamente imputabili all'over-sharenting, da quelli che fanno immediatamente accapponare la pelle, come la pedopornografia online e l'adescamento, a quelli più sottovalutati, come la perdita di controllo sulla propria identità digitale.
L’eccessivo entusiasmo genitoriale prevarica di fatto il diritto di autodeterminazione del bambino che quindi, ancor prima di poterlo decidere autonomamente, viene catapultato nel mondo virtuale, abituandosi prematuramente ad un concetto di privacy labile e controverso anche per gli stessi adulti. Infondo, l’età minima necessaria ad aprire un profilo personale sui social network è 13 anni, ma se un genitore scavalca questo limite, per quanto mosso da buoni sentimenti ed intenzioni, farà circolare ante tempo contenuti che in futuro potrebbero essere mal recepiti dal figlio e influenzarne negativamente la psiche e i rapporti sociali.
Sarebbe giusto chiedersi come si sentiranno gli infanti, una volta cresciuti, a relazionarsi con un mondo verso il quale non hanno avuto la possibilità di schermarsi a piacimento: proveranno vergogna? Coveranno rancore nei confronti della famiglia? Saranno più propensi a chiudersi in se stessi? E come sarà influenzata la loro comprensione di vita pubblica e privata?
In uno studio pubblicato nel 2019, la professoressa del dipartimento di Scienze sociali dell’Università di Utrecht, Gaëlle Ouvrein, sottolinea quanto i bambini siano condizionati dal fenomeno dell’over-sharenting nel momento in cui viene a costruirsi il concetto di sé. L’esigenza di notorietà e di attenzione sarà, infatti, già insita nella loro indole e sarà indissolubilmente legata alla popolarità sui social. Cresceranno interiorizzando il self-marketing e misureranno il proprio valore contando like e visualizzazioni, compromettendo così la percezione di sé e la propria autostima.
Il diritto alla privacy può proteggere dall’over-sharenting?
Dal punto di vista giuridico, l’over-sharenting è un tema di non facile gestione. La prima difficoltà è l’impossibilità, da parte di un bambino, di comprendere il diritto alla privacy e di intraprendere eventuali azioni legali.
In base alla normativa di riferimento – che muove i primi passi dalla legge sul diritto d’autore del 1941, fino ad arrivare alle attuali leggi sulla privacy – in Italia, il minore può prestare il consenso digitale e decidere se e quando pubblicare le sue immagini in rete a partire da 14 anni: prima di tale età, è necessario il consenso di entrambi i genitori. Ad essi è affidato l’esercizio del diritto all’immagine del figlio infra-quattordicenne, da svolgersi nel suo esclusivo interesse.
Al di sotto della fatidica soglia, quindi, l’autodeterminazione del bambino parrebbe spacciata: la legge presume che questi non sia sufficientemente maturo a comprendere tutte le conseguenze legate al prestare il consenso digitale. Qualche spiraglio però c’è, perché indipendentemente dall’età, il minore ha il diritto di essere ascoltato e di esprimere il proprio dissenso all’utilizzo delle immagini che lo riguardano.
L’idea è che, per acconsentire, il bambino debba prima capire tutte le conseguenze che questo comporterebbe ma, nel caso di un dissenso, la piena consapevolezza degli effetti non è necessaria, perché lo stato del minore resterebbe al più invariato (non si innescherebbero insomma situazioni dannose). Dire “no” alla pubblicazione di foto e video è quindi un’alternativa possibile.
Certo resta una via che presumibilmente non sarà percorsa di frequente, ma per le mamme e i papà (che senza dubbio sono spinti dalle più nobili intenzioni) è un ulteriore monito a ragionare sulle controversie di quelle azioni che, solo in apparenza, sono innocenti dimostrazioni del proprio orgoglio genitoriale.