Oggi Stay. è Raoul Dufy, che racconta come il divismo, assorbito dai social media, ha influenzato la nostra autostima
di Paola Sireci
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Humphrey Bogart, Marylin Monroe, Audrey Hepburn, Lauren Bacall, Anna Magnani, Sophia Loren, Marcello Mastroianni, Marlon Brando, Rodolfo Valentino, Brad Pitt sono solo alcuni tra gli attori più conosciuti al mondo nella storia del cinema. Ma siamo sicuri che siano e siano stati solo attori? L’iconico vestito bianco svolazzante, l’impermeabile con la sigaretta e il cappello, il tubino nero, il corpo a clessidra non sono soltanto caratteristiche specifiche di personaggi cinematografici, bensì veri e propri accessori indossati da prodotti venduti allo spettatore. Così il divismo cinematografico si configura dalla sua comparsa negli anni dieci del Novecento grazie alla collaborazione tra industria del cinema e mass media che, progressivamente, si è impegnata a soddisfare le richieste degli spettatori che nel cinema volevano rispecchiarsi, eliminando quella linea invisibile - identificata nello schermo - che separa finzione dalla realtà.
Nonostante i primi accenni del fenomeno negli Stati Uniti alla fine dell’Ottocento, attraverso l’esperienza teatrale, la nascita del divismo si colloca in Italia - probabilmente a Torino - con la creazione di un vero e proprio genere chiamato vamp-film: le attrici italiane, infatti, si ispiravano alle cosiddette Vamp scandinave ( letteralmente donne vampiro, ovvero femmes fatale), di cui il film del 1913 “Ma l’amor mio non muore” di Mario Caserini è viva espressione, che vide l’esordio dell’attrice Lydia Borelli, una delle prime dive italiane, come vera e propria Vamp nel suo seducente ballo attorno all’uomo, simbolo di emancipazione e sovversione del ruolo femminile da dominata a dominatrice. Una declinazione della condizione femminile atipica nel periodo precedente alla Prima Guerra Mondiale e all’introduzione della televisione in generale, necessaria per lo sviluppo dello star system che nel corso degli anni ha più volte promosso un ideale di donna risoluto, specie con il Neorealismo. Sia a Hollywood sia in Europa il divismo ha assunto una connotazione positiva, creando una vera e propria religione dell’intrattenimento che ha partorito icone, idoli portatori di caratteristiche fisiche, elementi caratteriali e di valori in cui gli spettatori potessero identificarsi, contrariamente ai primi anni del fenomeno stesso in cui i divi erano adorati in quanto eccessivamente idealizzati - frutto anche del cinema muto che lasciava in sordina la sfera verbale del divo - . È il caso degli attori appartenenti al già citato Neorealismo come Anna Magnani, Sophia Loren, Ingrid Bergman che hanno dato vita a un prototipo di donna coraggiosa, impavida e senza scrupoli, il cosiddetto concetto di femmina oggi utilizzato dal mondo maschile - anche in modo improprio - per designare una donna di valore e dai connotati fisici tipicamente femminili. Finizione e realtà , dunque, si sono fuse in un’unica dimensione in cui l’attore diventa prodotto e, in quanto tale, si attiene ai criteri di compiacimento e soddisfacimento dello spettatore che ammira quell’icona e, per osmosi, cede all’imitazione. A tal proposito il sociologo Vanni Codeluppi afferma che, negli ultimi cinquant’anni, il divo ha visto crescere la sua importanza ed è diventato un fondamentale modello di riferimento per i comportamenti delle persone, considerato il fatto che esso non appartiene alla semantica cinematografica, bensì al teatro, alla politica, al giornalismo, al mondo dello sport, della musica e dell’arte.
Nelle parole del sociologo e nel ripercorrere le tappe del divismo cinematografico, quanto si può riscontrare nell’esperienza dell’intrattenimento attuale? Oggi possiamo considerare quasi morto il divismo cinematografico: attori come Brad Pitt, Tom Cruise, Angelina Jolie, Christian De Sica, ad esempio, portano i postumi di un fenomeno ancora molto attivo ai tempi degli esordi delle loro carriere, frutto anche delle origini artistiche. Tuttavia oggi esso risente di una crisi tangibile che lascia alle spalle quella patina dorata dello star system in cui gli attori venivano idolatrati dai mass media e, di conseguenza, dagli spettatori. Il film Blonde con protagonista Ana de Armas esplica chiaramente e profondamente la dinamica del divismo, in un’ottica di pressione vissuta dal punto di vista del divo, saturo di quella fame di fama alimentata quotidianamente da un sistema che vuole l’artista continuamente sulla cresta dell’onda e al servizio della società. Con l’introduzione del Codice Hays, infatti, norme trasgressive hanno lasciato il posto a più disciplina, obbligando gli attori ad assumere e mantenere comportamenti decorosi non solo nel campo professionale ma anche nella loro vita privata. Una rigidità che spesso li ha spinti sull’orlo della depressione, dell’abbandono della carriera fino al suicidio.
Nella dinamica del divismo che pone al centro e l’accento sull’attore, sul giornalista, sul politico, musicista e altre figure appartenenti al mondo dello spettacolo, quante volte è stata data attenzione alla fame dello spettatore, che ricerca continuamente una figura in cui identificarsi e da imitare quasi in un’ottica catartica? Oggi il divismo è stato assorbito progressivamente e si sta integrando ai social media, in particolare al fenomeno delle influencer. Il prodotto diventa la loro vita, la perfezione che incarnano e che il follower, non più spettatore, emula, diventando attore della propria vita e cercando disperatamente il confronto con quella del divo e con quella e degli altri imitatori. Un circolo vizioso in cui entrambe le parti fanno i conti con la pressione cui sono sottoposti rispetto le aspettative degli altri, con l’unica differenza che l’attore, l’artista e l’influencer monetizza per quell’infelicità ricercata mentre ai follower e spettatori, non rimane nulla in tasca, parlando in termini economici. Il divismo, che vide il suo apice negli anni ’50 con figure come Audrey Hepburn o Marylin Monroe, ha stabilito indirettamente regole riguardanti lo stile di vita di quegli anni, come l’affermazione di canoni estetici ben precisi, che cambiano alla stessa velocità delle mode. Se con la Bionda Svampita o con Sophia Loren il corpo a clessidra identificabile nei famosi 90-60-90 cm corrispondeva a quanto di più seducente potesse esserci, con la Star di Colazione da Tiffany, quello stesso corpo veniva considerato non alla moda, quindi non bello e non socialmente accettato e accettabile.
Oggi, nel 2023, cosa impone il divismo contemporaneo? Labbra rifatte, naso alla francese, corpo esile con seni e fondoschiena siliconati che ricordano forzatamente le forme femminili, vacanze nei resort alle Maldive o in Indonesia e sponsorizzazioni di ogni tipo, persino del burro cacao della Labello. Viene iconizzato uno stile di vita altolocato, che pochi possono permettersi ma a cui tutti ambiscono ed emulano pur di rimanere sull’ormai piccolo schermo degli smartphone, aumentando l’autostima - identificabili nei like - e il portafoglio di chi promuove quel tenore di vita e abbassando, parallelamente e quasi inevitabilmente, quella degli anticonformisti che scelgono di non adorare, seguire e imitare, quasi stigmatizzati per la loro scelta. Quella piccola fetta di persone paragonabile alla bagnante nuda dell’artista francese Raoul Dufy che, fiera del suo corpo armonico con forme non necessariamente accettabili agli occhi di chi osserva, lo ostenta con serenità in un momento semplice come l’ascolto del suono di una conchiglia. Con un’ essenzialità visiva, Dufy è riuscito a rendere questa tela trasparente e ricca di emozione, configurandosi come “il pittore della gioia” per l’esaltazione di ciò che è bello ai nostri, ai suoi, occhi senza cedere a quell’imitazione e omologazione costretta che ci spinge a guardare e vivere il mondo attraverso la luce artificiale dei flash fotografici. Quegli stessi flash che hanno tracciato la storia del cinema e stanno cancellando inevitabilmente le nostre storie, la nostra unicità.