Oggi Stay. è Maura Delpero che racconta il velo occidentale ovvero la relazione tra suore, maternità e femminilità
di Paola Sireci
Chi si ricorda l’esuberante Whoopi Goldberg nelle vesti di Suor Maria Claretta in Sister Act? Il suo carattere vulcanico, strafottente e a tratti irriverente che profana un convento di monache attraverso canti pop e sovversione nei confronti della vita ritirata delle sorelle che vivono l’amore e la carità attraverso la preghiera e il servizio, lontane da qualsiasi tipo di contatto esterno. Questa concezione monastica ce la siamo portata, e lo facciamo ancora oggi, nell’immaginario attuale della vita consacrata femminile, aggiungendo elementi che la caratterizzano (anche in modo distorto) e la rendono, talvolta, fenomeno di costume oggetto di pregiudizi e morbosità.
Pensare che le suore siano rigide, represse sessualmente ed emotivamente, incapaci di amare, esteticamente non attraenti sono i luoghi comuni più diffusi sul loro conto, come conseguenza al ruolo che gli viene attribuito a livello sociale e all’interno della gerarchia ecclesiastica. Uno stereotipo consolidato nel tempo con donne che, pronunciando voto di povertà, obbedienza e castità, hanno sacrificato parte delle loro scelte di vita, come del resto accade nella vita di ognuno di noi: sposando un uomo si rinuncia alla libertà sessuale, diventare genitori comporta delle rinunce oggettive e inevitabili, svolgere un certo lavoro lontano dalla famiglia comporta rinunciare a dovergli stare vicino e via dicendo. Tuttavia lo stereotipo che si è costruito nel corso del tempo non proviene tanto dai voti pronunciati, quanto dallo stile di vita che comportano quei sì e che inevitabilmente negano alcune libertà innate nell’uomo. È possibile, ad esempio, negare a una donna di essere femminile, seducente, di guardarsi allo specchio e piacersi? Ma, soprattutto, dovrebbe essere normale sentirsi in colpa per voler piacere agli altri e per piacere a se stessi?
Queste sono domande a cui non dovremmo essere chiamati a dover rispondere e per cui non dovrebbe essere necessario dover compiere una scelta, in quanto fanno parte della natura di noi donne pertanto, mascherare quella stessa natura attraverso un velo, i capelli corti, la divisa o l’assenza di accessori, fanno fede, sì, al voto compiuto, ma obbligano indirettamente alla rinuncia del proprio essere. Andando più a fondo nella questione, mi sono chiesta più e più volte quale sia il peso di una scelta simile e soprattutto cosa ci sia dietro al velo occidentale. Quello stesso velo che troppo spesso giudichiamo se indossato da donne appartenenti a una cultura differente alla nostra come omicida della libertà femminile. La principessa saudita Sarah rivela, infatti, a Lilli Gruber nel suo libro “Donne dell’Islam – che affronta su più versanti la rivoluzione pacifica delle donne mussulmane- il suo sforzo nella creazione dell’associazione Al-Nahda per dare lavoro alle donne meno privilegiate. A tal proposito afferma, infatti, che
“Sono fiera dei passi avanti compiuti nell’istruzione gratuita per tutti. Ma per essere libere non è necessario andare in giro mezze nude. E questo che voi in Occidente non volete capire”.
Un’opinione ridondante nel libro che spesso tratta la questione della libertà femminile legata al morboso apparire occidentale e la questione del velo parlando delle donne consacrate, asserendo in modo coerente, quanto sia in Occidente sia in Oriente la scelta di indossare il velo è mossa da un Credo.
Un velo che nasconde delle storie di liberazione da un Paese di guerra, da situazioni domestiche violente o semplicemente da donne che scelgono di dedicare la loro vita interamente agli altri, rinunciando a un tipo di femminilità, maternità e amore diversi da quelli che si è soliti concepire. Quella contrapposizione perfettamente rappresentata da Maura Delpero nel suo film Maternal del 2019 che incrocia le storie di ragazze madri e suore che si prendono cura di loro di un hogar – casa rifugio per donne adolescenti-, mettendo l’accento su una novizia, interpretata dalla grandiosa Lidiya Liberman, che stabilisce un rapporto affettuoso con la figlia appena nata di una madre sbandata. Nella pellicola della regista argentina emerge quel dilemma e quella guerra interiore tra essere madre o essere Madre che caratterizza le donne consacrate: può il rapporto con dei bambini mettere in crisi la propria vocazione e, quindi le proprie scelte?
Nell’esperienza della Delpero questa risposta è stata risolta attraverso lo studio sul campo per mettere in scena Maternal con delle suore che, fidandosi di lei, hanno aperto il loro cuore e la loro esperienza personale a una perfetta sconosciuta con l’obiettivo di dare voce a quella parte nascosta, a quel tabù riguardante donne della quali ne viene riconosciuta la sola identità religiosa. Un’ apertura che, a mio tempo, ho ricevuto quando ho conosciuto a Torino molte suore con le quali ho condiviso il tetto ed esperienze. Suor Veronica, ad esempio, nella casa parrocchiale in cui viveva, accoglieva bambini orfani o con situazioni familiari complesse, oppure suor Enrichetta cucinava per comunità intere e dispensava consigli saggi, suor Barbara, suor Stefania si prendevano cura dei giovani che andavano alla comunità Piergiorgio di Torino, suor Simona e suor Viviana, invece, suore laiche guide per molte giovani donne in cerca di risposte. Loro, come tante altre, vivono la maternità in modo trasversale, dedicandosi a più figli con gioia e appagamento. Del resto la maternità, analizzata dal punto di vista etimologico – inteso come “il rapporto da madre a figlio, dal punto di vista naturale, sociale, giuridico, o anche semplicemente anagrafico”-, è differente rispetto alla concezione naturale e soprattutto sociale che, fin da piccole, ci inculcano insegnandoci a prenderci cura di Cicciobello ed educandoci alla genitorialità piuttosto che alla cura in senso più ampio.
Una cura circoscritta all’esperienza genitoriale che, una volta diventate giovani donne, ci porta a pensare che la realizzazione di una donna provenga dal diventare madre biologica, considerando qualsiasi altra esperienza di maternità mutilata, mettendoci le catene alla nostra vera natura: amare liberamente.