Oggi Stay. è la Guernica, simbolo del massacro. Ma perché ci indignano solo le morti dei bambini?
di Paola Sireci
È passato quasi un mese dall’inizio del quarto conflitto tra Palestina e Israele. Migliaia sono i morti e Gaza è ridotta in macerie, una fetta di terra che sembra l’ambientazione di film distopici come Hunger Games o la serie tv Black Mirror. Eppure questa è la guerra. Manzoni diceva che
“la storia insegna che la storia non insegna niente”
e aveva ragione. A distanza di 86 anni la tela scelta per questo editoriale è attuale più che mai, in quanto disegna perfettamente il confine tra la ferocia e l’umanità, tra l’odio e l’amore, rappresentando a pieno l’atmosfera luttuosa che aleggia Gaza negli ultimi trenta giorni ma che conosce – purtroppo - il linguaggio della morte da oltre 80 anni.
Eppure, non c’è narrazione giornalistica presente sulle testate televisive, che mostri realmente ciò che sta accadendo e che sta coinvolgendo migliaia di civili, tra palestinesi e israeliani. Appoggiare la Palestina non significa parteggiare per Hamas e, di conseguenza, essere antisemiti, eppure i programmi contenitore e i telegiornali stanno disegnando un conflitto in cui Israele è la parte lesa da un terrorismo che lo colpisce da oltre mezzo secolo, provocando morti a dismisura, spingendolo, quindi, ad attuare un processo osmotico e legittimo per contrastare Hamas: bombardamenti a raffica.
C’è, però, un elemento chiave che sposta il punto di vista nel dibattito politico del conflitto arabo-israeliano: le morti dei bambini. Pensare a una guerra senza considerare le vite che si spezzano, le famiglie disperse, l’impossibilità a vivere un futuro è un pensiero automatico, quasi obbligatorio, quando si osservano passivamente le immagini trasmesse in televisione o nei feed dei social. Ma sensibilizzare, al solo scopo di creare indignazione, mostrando bambini morti oppure comunicando il numero di feretri infantili quotidianamente è necessario, sì, per far prendere consapevolezza della grandezza di uno o più bombardamenti che noi guardiamo attraverso uno schermo però, allo stesso tempo, alimenta una compassione – assolutamente lecita – che spinge a considerare la guerra sbagliata solo perché a rimetterci la vita sono dei bambini innocenti, alimentando in modo sempre più incisivo quella pornografia del dolore tanto controversa. Ma nella cronaca di guerra chi rivolge il pensiero alle donne incinte? Ai padri di famiglia che scavano i corpi dei loro defunti? Agli anziani? Ai disabili o semplicemente ai giovani mutilati del loro futuro?
Nelle emittenti televisive nazionali non si vedranno mai le immagini cruenti presenti sui social, dove numerosi sono gli account di fotogiornalisti, giornalisti o civili che fanno la cronaca degli accadimenti a Gaza: quello sta capitando è un genocidio che, senza stare a indagare troppo sugli excursus storici – necessari, tuttavia, per comprendere quello che sta accadendo – dovrebbe spingere i fruitori a documentarsi e prendere una posizione, processo fondamentale nell’apprendere la storia da spettatori non passivi, con lo scopo di scorgere là dove risiede l’ingiustizia. Limitandoci ad ascoltare e vedere quello che la televisione propina, definendo Hamas un’organizzazione terroristica – che è vero – e facendo passare la difesa israeliana necessaria e legittima al fine di combattere quel terrorismo fondamentalista – scenario già visto nel 2001 dopo l’attacco alle Torri Gemelle -, con lo scopo di allarmare l’Occidente e coalizzarlo contro il mondo arabo, è un atto di ignoranza che sposta necessariamente il fulcro della questione: uno Stato che sta ne sta massacrando un altro. Trama a cui stiamo assistendo.
Fortunatamente ci sono, come riportato precedentemente, profili e pagine che mostrano immagini di quello che sta realmente accadendo a Gaza in cui, quello che colpisce maggiormente, sono le immagini di bambini in lacrime o apatici di fronte le atrocità che stanno vivendo ma, ancora di più, di genitori che scavano le macerie alla ricerca della propria famiglia o che piangono i loro feretri. Le stesse immagini che Pablo Picasso dipinge nel 1937 nella tela emblema della ferocia umana, anticipando una serie di massacri che si sarebbero susseguiti a partire dal 1948 a seguito della formazione dello Stato di Israele.
Ma oltre la pornografia del dolore, quali sono i retroscena di un conflitto decennale di cui l’informazione veicola solo la violenza?
Vertici, complotti, astensioni, firme e accordi commerciali sono la base, il fulcro di tutte le guerre e di questa in particolare in cui tanto il mondo Occidentale, quanto quello Orientale sono parte attiva nella definizione di dinamiche belliche ed economiche. Sicuramente questo quarto conflitto arabo-palestinese mette in crisi il Patto di Abramo, stipulato nel 2020 tra Stati Uniti – allora governati da Donald Trump – Israele ed Emirati Arabi al fine di distendere le tensioni politiche ma, allo stesso tempo, il disinteresse mediatico, unito a un’assenza di azioni concrete per supportare Gaza in questo genocidio legittimato da Israele e dall’Occidente, fomenterà sempre di più i civili palestinesi a unirsi ad Hamas per farsi giustizia da soli. Previsione probabilmente confermata anche dalla posizione controversa del Presidente dell’autorità palestinese Mahmud Abbas che, se da un lato non può condannare totalmente Hamas per ovvie ragioni, dall’altro deve fare i conti con il dissenso della popolazione palestinese a causa dei rapporti e cooperazione di sicurezza con Israele e con gli Stati Uniti. Questa inettitudine politica, accrescerà proporzionalmente il potere di Hamas nel tentativo di contrastare la violenza dell’esercito israeliano?
Perché quest’opera?
Questa tela esprime senza troppe parole il dolore di un massacro, dei tanti massacri che abitano la Storia del mondo. Diverse le epoche, diverse le dinamiche e diversi i soggetti coinvolti ma le emozioni e l’orrore sono gli stessi. Ogni singolo soggetto dell’opera è raffigurato con la bocca aperta: un urlo di dolore o “semplice” agonia, in entrambi i casi una sofferenza afona che anche soltanto attraverso le immagini è udibile. Pablo Picasso rappresenta una passione, un supplizio e lo fa con il suo stile surrealista, in linea con le atrocità che i personaggi della tela, e non solo, vivono: una realtà deformata dalla violenza che è, appunto, innaturale. Ma la potenza di quest’opera è data dalla tensione emotiva espressa dai singoli soggetti coinvolti e non solo dai bambini - quasi- assenti se non nella rappresentazione della passione in stile Michelangelo. Perché l’indignazione, la ribellione e la presa di posizione deve riguardare tutti.
Prima di lasciarti, voglio regalarti una lettura tratta dal libro “Ogni mattina a Jenin” di Susan Abulhava:
Amal, credo che la maggior parte degli americani non ami come amiamo noi. Non è questione di inferiorità o superiorità. Vivono in sfere sicure e superficiali e raramente spingono le emozioni umane nella profondità in cui viviamo noi. Vedo che sei confusa. Pensa alla paura. Quella che per noi è semplice paura per gli altri è terrore, perché ormai siamo anestetizzati dai fucili che abbiamo continuamente puntati contro. E il terrore che abbiamo conosciuto è qualcosa che pochi occidentali proveranno mai. L’occupazione israeliana ci ha esposti fin da piccoli a emozioni estreme, e adesso non possiamo che sentire in maniera estrema. Le radici del nostro dolore affondano a tal unto nella perdita che la morte ha finito per vivere con noi, come se fosse una componente della famiglia che saremmo ben contenti di evitare ma che comunque fa parte della famiglia. La nostra rabbia è un furore che gli occidentali non possono capire. La nostra tristezza può far piangere le pietre. E il nostro modo di amare non è diverso, Amal. E’ un amore che puoi conoscere solo se hai provato la fame atroce che di notte ti rode il corpo. Un amore che puoi conoscere solo dopo che la vita di ha salvato da una pioggia di bombe oi dai proiettili che volevano attraversarti il corpo. E’ un amore che si tuffa nudo verso l’infinito. Verso il luogo dove vive Dio.
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