Oggi Stay, è il Ratto di Proserpina che racconta perché le donne non "se la cercano"
di Paola Sireci
Giulia Cecchettin, uccisa dall’ex fidanzato, Filippo Turetta.
Elisa Claps, uccisa da un uomo ossessionato da lei, Danilo Restivo.
Tiziana Cantone, uccisa dalla gogna mediatica, dal fidanzato Sergio Di Palo e dai suoi complici Christian, Enrico, Luca e Antonio.
Melania Rea, uccisa dal marito, Salvatore Parolisi.
Rosaria Lopez, uccisa, e Donatella Colasanti, seviziata da tre ragazzi appena conosciuti, Angelo Izzo, Andrea Ghira e Gianni Guido.
Giulia Tramontano, uccisa in gravidanza al settimo mese, dal suo fidanzato Alessandro Impagnatiello.
Sara Scazzi, uccisa dalla cugina e dalla zia Sabrina Misseri e Cosima Serrano.
Asia, stuprata a Palermo da sette coetanei e filmata col cellulare da Angelo Flores.
Come loro, tante altre. Nel mondo. Ogni minuto.
Tutte donne uccise o aggredite da uomini e donne MA… Ma che al primo sospetto dovevano allontanarsi dal compagno, ma che non dovevano appartarsi con quell’uomo sapendo le voci che giravano in paese, ma che non dovevano girare video intimi col proprio fidanzato, ma che non dovevano andare a casa di ragazzi conosciuti solo qualche giorno prima, ma che non dovevano assumere un atteggiamento troppo estroverso o mostrare troppo il loro corpo etc… .
Quante volte, nel momento in cui si sentono casi di cronaca relativi a femminicidi o violenze, non si cercano informazioni e, indirettamente, non ci si faccia un’idea su quanto accaduto e sulle dinamiche in cui si è compiuta l’aggressione? Si condanna quasi subito il carnefice e poi seguono tutti i dubbi, tutti “ma” sulla vicenda.
Colpevolizzare la vittima, volontariamente o inconsapevolmente, attribuendole un atteggiamento ritenuto totalmente o parzialmente responsabile di quanto accaduto, è un atto quasi automatico nell’analisi e nello studio di un caso di violenza di cui, i media sono i primi ad attuarne le manifestazioni. Recentemente è stata mandata in onda – sfortunatamente – l’intervista di Asia, la ragazza palermitana abusata sessualmente lo scorso 7 luglio, nel programma Rai Avanti Popolo condotto da Nunzia De Girolamo, in cui è evidente questo processo: la giornalista, attraverso delle domande dirette e studiate precedentemente – come capita in qualsiasi intervista televisiva e non – estorce alla ragazza, vittima di una violenza brutale, informazioni molto intime e personali relative al suo passato, riguardanti la famiglia e nello specifico la figura maschile, ponendo particolare attenzione sulla presenza di un padre violento, sulla ricerca di una figura paterna nei suoi partner, chiedendole addirittura il motivo per cui ha riposto fiducia in una persona come Angelo Flores, colui che ha ripreso il video della violenza sessuale, nonché amico della ragazza. Tra le espressioni interessanti della De Girolamo ci sono “ a proposito di uomini della tua vita”, “tra i ragazzi della vita”, velata allusione alla affermata esperienza della giovane donna in fatto di uomini, chiedendole addirittura perché si fidasse di lui - domanda banale e inutile quando si ama una persona.
Nel tentativo di empatizzare con la vittima è sempre presente la tendenza a giudicarla nelle scelte relative al suo aggressore o alle dinamiche concernenti l’aggressione subita. La colpevolizzazione della vittima, infatti, è una dinamica nota, individuata e descritta per la prima volta dallo psichiatra William Ryan, nel 1971, nell’ambito degli studi sulle tensioni interraziali negli Stati Uniti, con specifico riferimento al modo in cui gli afroamericani venivano considerati un “problema” dalle politiche pubbliche. Nel contesto dello stupro e della violenza di genere questo concetto si riferisce all’ attribuzione, spesso implicita, alle vittime di violenza, di precise responsabilità nell’aver attivato la violenza di cui sono state oggetto; responsabilità che non riguardano loro atti specifici nei confronti degli aggressori, quanto piuttosto il loro aver provocato l’aggressione con atteggiamenti o espressioni di sé ambigue o ambivalenti, dal comportamento all’abbigliamento.
Già nel 1971 Ryan evidenziava come si trattasse di una dinamica subdola:
“Il processo è spesso molto sottile. La colpevolizzazione della vittima è ammantata di gentilezza e premura (...). Nell’osservare il processo di colpevolizzazione della vittima, si tende ad essere confusi e disorientati perché coloro che praticano questa arte mostrano un profondo interesse per le vittime, che appare abbastanza autentico. Così questa nuova ideologia appare molto diversa dal vecchio aperto pregiudizio e dalle tattiche reazionarie dei vecchi tempi. (...) Mentre quelle semplicemente squalificavano le vittime come esseri inferiori, geneticamente difettosi, o moralmente imperfetti, con una enfasi specifica su difetti intrinseci ed ereditari, questa sposta l’enfasi sulle cause ambientali. (...) Lo stigma che segna la vittima e autorizza la sua vittimizzazione, è uno stigma acquisito, uno stigma di origine sociale e non genetica. Ma lo stigma, il difetto, la differenza fatale – per quanto dovute all’operare storico delle forze ambientali – è ancora collocato all’interno della vittima, nella sua pelle. (...) [La colpevolizzazione della vittima] È una brillante ideologia per giustificare una forma perversa di azione sociale, indirizzata a cambiare non la società, come ci si potrebbe aspettare, ma la vittima della società”
Tutto, quindi, ruota attorno alla vittima. Il suo carnefice è responsabile in quanto compiente un reato, ma il dibattito relativo all’aggressione ruota sempre attorno alla vittima, dall’analisi del contesto famigliare in cui è cresciuta, alle sue peculiarità, alle tendenze caratteriali fino all’indagine delle sue abitudini quotidiane. Questo è ben evidente nei programmi contenitore in cui il caso di cronaca non fa notizia in quanto, appunto, ‘caso’ bensì perché diventa un pretesto per parlare di altri argomenti relativi, come le fragilità delle donne vittime di violenza, la risignificazione dell’evento, escludendo tuttavia dal dibattito la questione centrale, la più importante: l’educazione all’affettività e alla relazione tra uomo-donna.
Il film “La scuola cattolica”, uscito nel 2021 e diretto da Stefano Mordini, tratta con schiettezza il massacro del Circeo, avvenuto nel 1975, con una narrativa cruda, brutale che non lascia spazio alla violenza sessuale, fulcro di questa vicenda, una delle più tetre delle pagine di cronaca del nostro Paese. Il regista sceglie di focalizzarsi, denunciando, sull’educazione dei ragazzi - e lo fa in maniera discutibile -, evitando di ripercorrere un momento come l’atto della violenza in sé utile ai soli fini giudicanti del pubblico, lasciando invece molto spazio alle figure maschili, agli aggressori nel tentativo di disegnare il loro profilo umano e sociale.
Imparare a gestire le emozioni, anche quelle più pericolose per gli altri, i rifiuti, le frustrazioni, allontanando l’idea di controllo, possesso e manipolazione verso l’altro, in qualsiasi relazione, è il primo e forse unico passo per evitare che, quando uscirà l’ennesimo caso di abuso o femminicidio, si pensi al carnefice e non alle circostanze in cui si è consumato l’atto in sé, arrivando a ricordare con quanti uomini è stata la vittima e come era vestita al momento dell’aggressione.
Perché quest’opera?
La mitologia greca ci insegna, attraverso i suoi miti e leggende, che gli istinti e le emozioni che muovono gli esseri umani prevalgono sempre sulla ragione, spesso compiendo ingiustizie che si ripercuotono solo sui più vulnerabili. Il mito della dea Proserpina ne è un esempio. Figlia della dea della fertilità Cerere, Proserpina viene rapita da Plutone, dio delle tenebre, per diventare sua sposa e regina dell’Oltretomba. L’unico modo per poter tornare nella sua amata Sicilia è non toccare cibo offertole da Plutone ma, dopo giorni di astinenza da cibo, Proserpina cede alla tentazione ed è vincolata per l’eternità a vivere nell’Oltretomba. Ma poiché Giove vede che nel regno della luce incombe la carestia causata dalla depressione di Cerere dopo la perdita di Proserpina, il dio supremo concede alla giovane sposa di vivere sei mesi nell’Oltretomba e gli altri sei nella luce. Gian Lorenzo Bernini trasforma il marmo in carne viva, rappresentando in modo realistico il momento in cui Plutone rapisce Proserpina. Un momento di grande tensione in cui è evidente la prepotenza del dio e la resistenza - inutile - e la disperazione della dea. Una dea appagata, amante della sua vita che improvvisamente viene rapita e costretta a vivere un matrimonio infelice. E non se l’è cercata.
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