Oggi stay. è Frida Kahlo, che racconta perché siamo ossessionati dall’all you can eat
di Paola Sireci
Ristoranti apparentemente lussuosi allestiti con complementi d’arredo curati nel minimo dettaglio con l’obiettivo di dare un tocco di stile e di classe, camerieri veloci nel servizio senza intrattenere alcun tipo di relazione con i clienti e, dulcis in fundo, un tablet posto su tutti i tavoli, da cui si può ordinare il pasto. Una bacchetta magica digitale che esprime ogni desiderio culinario, senza badare a spese. Formula ristorativa alternativa alla classica cena “alla carta”, l’all you can eat, ha preso piede negli ultimi anni, cambiando i nostri gusti in fatto di cibo e comandando i nostri portafogli in modo inconsapevole.
Inquietante ma allettante allo stesso tempo. Perché?
Oggi è difficile immaginare almeno una serata al mese senza concederci lo sfizio – e il lusso – di sfondarci di cibo eppure, fino al secolo scorso, o anche solo fino a dieci anni fa, andare a mangiare fuori poteva essere considerato, sì un lusso, ma soprattutto un’evasione dalla monotonia settimanale fatta di insalate, pasta, carne e verdura. Andare a mangiare al ristorante piace perché sapere di non dover pensare a cosa cucinare, fare la spesa, sporcare le stoviglie e servirci da soli all’interno delle quattro mura domestiche, ci soddisfa, ci sazia. Qual è dunque il passaggio, l’anello mancante, tra l’esperienza culinaria estesa al di fuori dell’ambiente domestico per evadere dalla routine quotidiana, e andare al ristorante per il gusto di mangiare fino allo stare male? Se pensiamo alle sue origini, infatti, la formula all you can eat nasce negli Stati Uniti negli anni Trenta, con l’obiettivo di combattere le conseguenze della Grande Depressione e incoraggiare i cittadini impoveriti dalla crisi, a preferire un pasto fuori casa rispetto uno domestico. I ristoratori conoscevano le condizioni economiche in cui versava la popolazione americana, studiando una formula che potesse dar loro la possibilità di conciliare il piacere con la drammatica precarietà economica che aveva colpito il Paese. Ispirandosi ai buffet francesi nasce così l’all you can eat.
Nonostante le buone intenzioni dietro questa iniziativa assai innovativa, la sua paternità è di carattere pubblicitario, piuttosto che umano, che attribuisce come reale precursore Herbert “Herb” Cobb McDonald, manager di pubblicità e intrattenimento che ha introdotto l’idea nel 1946. Dalla sua invenzione, l’all you can eat diventa un modello di business per molti ristoranti, oggetto di studio a livello sociologico. William Pearson, nel suo romanzo del 1965 “The muses of ruin” ha descritto così il buffet:
“A mezzanotte ogni casinò che si rispetti presenta in anteprima il suo buffet: l'ottava meraviglia del mondo, l'unica vera forma d'arte di cui questa androgina meretrice di città si è liberata... Ci meravigliamo delle Grandi Piramidi, ma sono state costruite nel corso di decenni; il buffet di mezzanotte viene costruito ogni giorno. I castelli e le grotte di ghiaccio tritato raffreddano i gamberi e l'aragosta. L'aspic scolpito è fatto scorrere con arabeschi Paisley. Sono, disposti con riverente maestria: antipasti, condimenti, insalate e salse; granchio, ostrica di aringa, storione, polpo e salmone; tacchino, prosciutto, roast beef, casseruole, fondute e curry; formaggi, frutta e dolci. Quante volte passi la fila è una questione privata tra te e le tue capacità, e poi tra le tue capacità e il malocchio dello chef”
Una concezione di intrattenimento, quasi artistica, del mangiare che diventa non solo un’esperienza conviviale ma un vizio, qualcosa che denota un certo stile di vita, regalando pan per i denti al marketing e alla sociologia che, attraverso lo studio dei clienti, li – ci - trasforma in un esperimento sociale. Secondo uno studio condotto dalla Cornell University di New York nel 2008, pare che i consumatori tendano a consumare meno pizza quando pagano di meno. Questo perché, secondo i ricercatori, le persone prendono decisioni di consumo basandosi sul valore del cibo che consumano più che sull’appetito. Ma se pensiamo, invece, al fatto che il consumo raddoppia, o meglio, triplica in relazione a un livello stazionario del prezzo, possiamo considerare un fatto ancora più sconcertante, ovvero che mangiamo non mossi dall’appetito ma dal rapporto quantità-prezzo per cui “mangio fino allo sfinimento tanto il prezzo non aumenta”.
Siamo più affamati dall’idea di poter usufruire di un servizio a un basso costo, che dal cibo in sé, mettendo in secondo piano la qualità di quel servizio ma, soprattutto, le scelte morali. Dal punto di vista umano quanto è giusto continuare a mangiare anche quando siamo sazi, mentre nel mondo ci sono persone che non riescono a consumare il pasto quotidiano? E dal punto di vista ambientale, siamo minimamente consapevoli dell’impatto che i ristoranti all you can eat hanno sull’ambiente attraverso il processo di cottura continuo, il consumo di rifiuti dovuti agli sprechi inconsapevoli di cui siamo responsabili o ancora, solo dal punto di vista salutare, quanto fa bene al nostro corpo mangiare in modo interminabile per una sera intera nell’arco intermittente mensile?
Secondo i dati FAO del 2011, infatti, circa un terzo del cibo prodotto nel mondo, per diverse ragioni, non viene consumato mentre al 2022, sebbene il tema dello spreco alimentare sia diventato più rilevante agli occhi di tutti e delle istituzioni, sono ancora 74 a testa i chili di cibo che ogni anno vengono sprecati a livello globale. E quindi il consumo illimitato di cibo collide con l’idea di preservare e trasferire alle nuove generazioni quello che il mondo ci offre.
Probabilmente c’è una consapevolezza ben superiore al nostro immaginario rispetto questa concezione consumistica del cibo, al contrario della nostra funzione di marionette in scelte pubblicitarie che non ci riguardano direttamente ma che contribuiscono a modellare la società secondo la richiesta dei tempi che corrono: una società consumistica prevede, appunto, che ci sia uno consumo irrefrenabile del denaro, del cibo, delle relazioni. E noi siamo attori presenti e attivi in questa dinamica.
Ma fino a che punto potremo permetterci il lusso di sedere attorno a un tavolo trasudando con fierezza la nostra fame di “risparmio” contraccambiata con quantità esorbitanti di cibo, andando fieri della nostra ingordigia? Forse, al momento, abbiamo le pance ancora troppo piene per rendercene conto e forse, ci meritiamo tutti di passare la notte sul water.
Perché quest’opera?
Frida Kahlo è considerata l’artista del ‘900 simbolo di riscatto per il suo Paese, per il genere femminile ma soprattutto per sé stessa. Colpita fin dall’infanzia dalla malattia, prima la poliomielite, poi l’incidente avuto a diciotto anni che l’ha costretta immobile su un letto, la sua esistenza è stata segnata dalla sofferenza e dall’angoscia. L’unica finestra sul mondo è lo specchio montato sopra il baldacchino dal quale vede riflessa l’immagine di sé stessa e della sua anima, a tratti fragile ed esasperata dalla sua vulnerabilità. Eppure, quel periodo di convalescenza, diventerà il centro della sua produzione artistica, il momento più fertile del quale, oggi, ne ammiriamo le opere.
“Senza speranza” è l’emblema di quel periodo così angusto della sua vita, in cui Frida perde l’appetito ed è costretta a nutrirsi attraverso un imbuto che nella tela raffigura come un macigno sorretto da una scala di legno. Il cibo costituisce per lei un’ossessione, la stessa che nel XX secolo colpisce la società: sia per l’eccesso, sia per la mancanza, esso diventa il fulcro delle nostre esistenze tanto da diventare tanto un Dio, quanto un incubo.
Ed è proprio nell’incontro tra i due opposti che la parte di forte della società si insedia, colpendo la nostra vulnerabilità, i nostri punti deboli, rendendoci schiavi di meccanismi a cui prendiamo parte attivamente quasi in modo inconsapevole, proprio come Frida Kahlo che accetta la sua vita, con le mille fratture, e la abbellisce con la sua arte.