Oggi Stay. è Edward Hopper che ci racconta la provincia americana. Quella stessa provincia che nel 2016 aprì le porte all’elezione di Donald Trump e che, forse, potrebbe rifarlo nel 2024.
Edward Hopper, La casa di Adam, 1928 - Wichita Art Museum, Kansas City
di Amina Al Kodsi
Le elezioni di Midterm statunitensi si sono da poco concluse. I repubblicani hanno vinto la maggioranza alla Camera, mentre il Senato resta democratico. Donald Trump aveva sostenuto e schierato diversi candidati repubblicani, che però hanno in gran parte deluso le sue aspettative. Sebbene le elezioni non abbiano dato i risultati da lui sperati, l’ex presidente degli Stati Uniti il 15 novembre scorso, dal suo resort Mar-a-Lago, ha dichiarato di volersi ricandidare alle presidenziali del 2024 in un tortuoso discorso durato più di un ora. La retorica è la stessa della campagna elettorale del 2016: incendiaria, megalomane e menzognera.
I due famosi fact checkers della CNN, Daniele Dale e Paul LeBlanc, hanno contato ben 20 affermazioni false nel suo discorso. Un risultato lusinghiero anche per il più abile dei bugiardi patologici. Ma sappiamo che questo per il vecchio Donald Trump non è nulla. Fra le sue bugie colossali ricordiamo la contestazione della veridicità del certificato di nascita di Barack Obama oppure l’accusa di filo-terrorismo lanciata al rappresentante democratico del Minnesota, Ilhan Omar. Fra quelle più esilaranti c’erano poi i racconti di uomini maturi che, pur non riuscendo a piangere da anni, continuavano ad avvicinarsi a lui versando copiose lacrime di gratitudine. Una raccolta di aneddoti passati alla storia come la serie di Tear Stories di Donald Trump.
La menzogna è stata praticamente il perno intorno a cui è ruotata tutta la carriera politica dell’ex presidente statunitense. Eppure quest’uomo, che durante la precedente campagna elettorale e il mandato presidenziale ha mentito spudoratamente su tutto e che sta evidentemente continuando a farlo, riesce ad avere una presa sull’elettorato che a una prima lettura sembrerebbe difficile da spiegare. Ci si chiede come sia possibile mentire sfacciatamente e ottenere il riscontro e il plauso di milioni di americani. Ebbene questa è la formula magica su cui, come ben sappiamo, si reggono i regimi populisti. Una formula che Trump è riuscito ad affinare e perfezionare in modo magistrale, questo glielo dobbiamo riconoscere. Il tycoon non solo è riuscito a sfruttare meglio di chiunque altro il potenziale politico della menzogna, ma ha anche capito che per ottenere risultati rapidi e duraturi occorre parlare alla sfera emotiva delle persone, piuttosto che a quella razionale. Screditando i media tradizionali e favorendo la circolazione di una grande moltitudine di notizie false, l’ex presidente è stato in grado di stordire l’elettorato americano, facendo leva su paure secolari e immotivate, come quella della sostituzione razziale ed etnica.
Sono dunque molteplici i fattori che concorrono alla fabbrica del consenso trumpiano. Ecco perché sarebbe inesatto bollare l’elettorato dell’ex presidente come una massa di bifolchi suggestionabili e poco istruiti (anche se, ad onor del vero, molti di loro lo sono realmente).
Ma allora, chi sono gli elettori di Donald Trump? Bifolchi ed estremisti a parte, ci sono persone all’apparenza insospettabili. C’è la sconfinata provincia americana, quella dipinta da Hopper, fatta di casette tutte uguali con i canestri attaccati sopra la porta dei garage e i prati falciati di fresco. Migliaia di abitazioni dall’aria innocua e rispettabile in cui si annidano intolleranza, diffidenza ed odio. Un odio che non è stato certamente Trump ad inventare, ma che l’americano medio ha per anni tentato in modo più o meno maldestro di celare, un po’ come si fa con la povere sotto il tappeto. Trump, nel 2016, ha solo sollevato quel tappeto e da allora la polvere ha ricoperto ogni cosa. Una polvere che due anni di presidenza Biden, a mio avviso, non sono ancora riusciti a ripulire del tutto.
Sebbene molti candidati repubblicani stiano ora prendendo le distanze dall’estremismo trumpiano per paura di non essere votati dall’elettorato più moderato, io credo che gli effetti scaturiti dal mandato presidenziale di Trump non si siano certamente esauriti in un lasso di tempo così breve. La presidenza Trump è stata un fenomeno di così grande portata da far sì che venisse coniato un termine apposito per descriverla, il trumpismo per l’appunto, i cui principi si fondano essenzialmente sul nazionalismo sfrenato, l’isolazionismo e una politica, a dir poco, restrittiva in termini di immigrazione. Un fenomeno divenuto così rilevante da generare implicazioni che potrebbero andare, a mio avviso, persino ben oltre la figura dello stesso Trump. Se il trumpismo è infatti riuscito ad attecchire così bene negli Stati Uniti è perché c’era già un ambiente favorevole, intriso di tensioni razziali, belligeranza e nativismo, in cui poter prosperare.
Anche se oggi, secondo molti analisti, gli Stati Uniti post-Trump sarebbero cambiati e potrebbero non essere più un terreno fertile per un’eventuale prossima campagna elettorale, io manterrei una posizione decisamente più cauta. Ricordiamoci che quasi due anni fa, durante l’assalto a Capitol Hill, decine di migliaia di americani hanno indossato corna, pelli d’animale e copricapi tribali, facendo riemergere pulsioni arcaiche e ancestrali. Pulsioni nutrite da anni di supremazia WASP e di comportamenti anti-democratici da parte del Partito Repubblicano. Pulsioni che non vorremmo mai più veder riemergere, ma che ci sono e continuano a serpeggiare soprattutto in quell’hopperiana America di provincia rurale e dimenticata, anche qualora Trump non dovesse essere rieletto.
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