CONTROCULTURA. Navalny, l’eroe di cui la Russia aveva bisogno (?)
Approfondimenti e riflessioni su attualità, costume e società, a cura di Amina Al Kodsi
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Lo scorso 16 febbraio Alexsej Navalny, attivista politico, blogger e oppositore per antonomasia di Valdimir Putin, è morto nella colonia penale IK-3 di Kharp, nella regione artica di Yamato-Nenets, uno dei carceri più remoti e duri della Russia, in cui era stato trasferito dal dicembre dello scorso anno. Stando alla versione fornita dalle fonti ufficiali, l’attivista avrebbe avuto un malore dopo la consueta passeggiata mattutina, probabilmente a causa di un “coagulo di sangue”. Una versione che non convince la moglie e i famigliari, viste le ottime condizioni di salute in cui versava l’attivista. La morte di Navalny non è stata accidentale nemmeno per gran parte dell’opinione pubblica occidentale, che ha individuato in Putin il suo principale responsabile.
L’ascesa: dal passato ultranazionalista alla lotta demagogica alla corruzione.
Il caso Navalnv salta alla ribalta sulle cronache internazionali in seguito all’avvelenamento causato dall’agente nervino Novichok che, nell’agosto del 2020, costò quasi la vita all’attivista. Prima di allora la figura di Navalny non aveva ancora raggiunto la popolarità all’estero, sebbene la lotta anti-cremlino da parte del dissidente russo fosse iniziata diversi anni prima. Ma chi era Alexsej Navalny? Il suo passato politico è ricco di zone d’ombra. Per anni l’attivista è stato un assiduo frequentatore della Marcia Russa, la manifestazione in cui, ogni anno, organizzazioni politiche ultranazionaliste, molte delle quali neonaziste, si riuniscono e marciano per le strade della città moscovita. Nel 2007, dopo essere stato espulso dal partito liberare Yabloko, fonda il movimento politico xenofobo, Narod (Popolo). Le posizioni, a dir poco estremiste di quegli anni, si potrebbero sincretizzare in un video in cui Navalny, nei panni di un dentista, paragona la rimozione di una carie alla deportazione degli immigrati clandestini, con lo scopo di legittimarla e affermando che “tutto ciò che ci infastidisce dovrebbe essere accuratamente, ma inflessibilmente eliminato mediante la deportazione”. Con gli anni la visione politica del dissidente si ammorbidisce notevolmente. Navalny abbandona i discorsi di incitamento all’odio in cui paragona i musulmani agli “scarafaggi” e gli immigrati ai “ratti”, per concentrarsi su un uso massiccio e capillare dei social. Il nazionalismo viene saggiamente barattato con un più accomodante populismo, con lo scopo di ottenere una maggior presa sull’elettorato . Una virata, quella verso il populismo, che Matveev, in un’intervista rilasciata a Open spiega in questi termini:
Credo che ci sia del pragmatismo in questo, perché contro Putin hai bisogno del sostegno di un vasto numero di persone e il populismo era quello che gli serviva.
Navalny comprende l’enorme potenziale della comunicazione demagogica così, in linea con la retorica dell’onestà in stile “Movimento 5 stelle”, nel 2008 apre un blog con lo scopo di denunciare lo sperpero di denaro pubblico da parte dell’oligarchia russa. Il numero di follower sui suoi canali social inizia a crescere a dismisura. La video inchiesta “Il palazzo per Putin, storia della tangente più grande”, in cui si sostiene che il Presidente russo abbia utilizzato il denaro proveniente da una maxi tangente per costruire un’immensa tenuta segreta, raggiunge oltre 100 milioni di visualizzazioni.
Come ogni retorica populista, ciò che manca a Navalny ed alla sua organizzazione, è una chiara visione politica di insieme. Un problema che si riflette nell’eterogeneità del gruppo di sostenitori dell’attivista: dai giovani liberali e dalla comunità lgbtq, reclutati attraverso l’uso dei social, sino ai simpatizzanti dell’ultradestra. La mancanza di un programma politico definito preclude inoltre a Navalny il totale sostegno delle sinistre, che intravedono nella sua lotta alla corruzione manie di protagonismo ed aspirazioni politiche egoistiche. Secondo molti politologi, Navalny avrebbe sempre ambito a diventare un nuovo Putin a tutti gli effetti, condividendo con il presidente russo diverse caratteristiche, fra cui la megalomania e le medesime ambizioni zariste
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La Russia post Navalny e le elezioni presidenziali di marzo.
Ora che l’attivista non rappresenta più una minaccia per Putin, cosa accadrà? Per quanto carente ed ambiguo in termini ideologici, a Navalny va riconosciuto il merito di aver catalizzato le forze dell’opposizione anti- Cremlino, restituendo loro una dignità ed un peso che avevano ormai perso da anni. Nonostante ciò, è davvero molto improbabile che queste possano avere una qualche possibilità di vittoria nelle elezioni presidenziali del prossimo 17 marzo. Credo, però, che la domanda che tutti dovremmo porci, per comprendere quale sia la situazione politica in Russia, sia un’altra. Che cosa accadrebbe se Navalny fosse ancora vivo e se Putin non dovesse essere rieletto a marzo? Anche in questo caso, non molto. Sarebbe davvero molto ingenuo credere che l’unico ostacolo verso la costituzione di uno stato democratico sia rappresentato dalla figura di Vladimir Putin. Per far sì che questo accada occorrerebbe smantellare il potente apparato politico, militare e paramilitare che lo sostiene e che da anni, dalle retrovie, ha agito e continua ad agire, in momenti cruciali della storia russa per preservare la propria leadership all’interno del Paese. Stando a quanto affermato da Calder Walton, uno dei più grandi studiosi mondiali di intelligence e sicurezza nazionale, in un articolo pubblicato su Time Magazine:
La garanzia più sicura che la Russia non effettuerà riforme secondo linee democratiche è il potere dei suoi servizi di sicurezza e di intelligence. Nei momenti chiave della storia sovietica e post-sovietica, tra colpi di stato, quasi colpi di stato, riforme e rivoluzioni, il KGB e i suoi successori hanno sempre agito come kingmaker. Il loro potere è rimasto costante mentre i leader del Cremlino andavano e venivano. Ci sono pochi motivi per credere che non lo faranno di nuovo.
L’eroismo di Navalny, che è consistito non tanto nell’aver assunto idee e posizioni nobili, quanto nell’aver sfidato un consolidato apparato sovrastatale dai poteri pressoché illimitati, non servirà purtroppo ad innescare un qualsivoglia meccanismo democratico. Si configura piuttosto come l’ennesima prova della posizione subalterna ricoperta dall’elettorato, dalle elezioni democratiche e dal concetto stesso di Stato, rispetto a quella occupata dai potenti servizi segreti che operano in Russia.
Come afferma Walton:
La Russia è effettivamente un servizio di sicurezza con uno Stato annesso. I suoi servizi di intelligence – FSB, SVR e GRU – esercitano una vasta influenza. Negli ultimi due decenni, Putin ha governato la Russia facendo affidamento su “uomini di forza”, i siloviki, che hanno un background nel KGB o nell’esercito. Secondo alcune stime, nel 2019 il 77% del governo di Putin era costituito da siloviki. Secondo un recente capo della stazione della CIA a Mosca, la “stragrande maggioranza” dei tecnocrati nel suo governo proviene da questo background. E Putin non è necessariamente il più intransigente tra loro.
E’ evidente che, se un leader autoritario come Putin potrebbe essere, con tutta probabilità, fra i più moderati del suo entourage, l’attuazione di una democrazia è lungi dall’essere imminente. La Russia, nella sua struttura attuale, sopravvivrà non solo a Navalny, ma a Vladimir Putin stesso.