Libertà di stampa: si muore ancora per difenderla
«Chiunque ha il diritto alla libertà di opinione ed espressione; questo diritto include libertà a sostenere personali opinioni senza interferenze ed a cercare, ricevere, ed insegnare informazioni e idee attraverso qualsiasi mezzo informativo indipendentemente dal fatto che esso attraversi le frontiere» - Dichiarazione universale dei diritti, articolo 19
Quando definiamo un paese libero, sottintendiamo che le sue agenzie di stampa e altre pubblicazioni, che i cittadini e ogni singolo individuo abbiano il diritto di diffondere il proprio pensiero senza interferenze e rappresaglie da parte dello Stato.
Nella storia moderna un principio di libertà di stampa è stato formulato dalle nazioni unite nel 1948, con l’articolo 19 sopracitato.
La libertà di stampa è forse uno dei più grandi diritti che l’umanità ha conquistato nell’ultimo secolo, non a caso la stampa viene definita il quarto potere, per la sua capacità d’informare ma soprattutto influenzare la massa. L’importanza di una stampa libera è strettamente correlata al concetto di democrazia; questo deriva dal fatto che la forza della democrazia sta nelle mani del popolo, il che significa che le persone devono essere informate e consapevoli per prendere le giuste decisioni quando vanno a votare. E poi devono avere un'idea di quello che succede dopo: come si sono comportati i politici eletti o cosa è successo alle decisioni prese con il voto.
Nonostante l’Unione Europea “obblighi” i paesi membri alla libertà di stampa, non sempre questa viene rispettata e ci sono paesi come l’Ungheria dove la stampa è fortemente influenzata dallo Stato. La stessa situazione è vissuta in Paesi dove le maggiori testate sono di proprietà dei primi ministri, come la Repubblica Ceca e la Slovenia. Sembra infatti che la tendenza a bloccare la stampa, o per lo meno a limitarla, sia diffusa in quasi tutte le democrazie ed è legata ai cambiamenti che si stanno sviluppando in molte di esse, che da democrazie libere assumono spesso tratti autoritari.
Paola Martinelli
Superare la solitudine per combattere la censura
di Francesca Staropoli
Fare buona informazione è una sfida sempre più complessa, ma non solo a causa della moltiplicazione dei mezzi a disposizione che richiedono l’adattamento di linguaggi e contenuti, o di fenomeni come l’infodemia che caricano eccessivamente il pubblico di notizie fino al punto che non è più agevole distinguere le notizie rilevanti dal “rumore”. Per i giornalisti che si occupano di guerra e di fenomeni sociali come la corruzione è infatti pericoloso - e lo sta diventando sempre di più - esercitare la professione, anche in Italia.
A dirlo è Reporters Sans Frontières, l’organizzazione non governativa che osserva e difende la libertà di stampa nel mondo, nel suo report annuale che stila una classifica sullo stato di salute globale della libertà di stampa, risultato di cinque indicatori: politico, economico, sociale, legislativo, di sicurezza. L’Italia, dopo essere stata stabilmente al 41° posto su 180 negli anni 2020 e 2021, secondo il report 2022 è scivolata al 58° posto. Le minacce maggiori - recita il report - derivano sia dalla criminalità, soprattutto quella organizzata, e soprattutto dal sud Italia, sia dalla violenza dei gruppi estremisti, esacerbatasi durante la pandemia.
Un altro fenomeno rilevante è quello dell’autocensura a cui si sottopongono i giornalisti, intimoriti dalla facilità con cui i soggetti di inchieste giornalistiche ricorrono a querele preventive.
Più articolato, ma ugualmente interessante per comprendere quanto libera sia la stampa italiana, è il discorso sui legami tra i giornali e le emittenti radiotelevisive e gli editori. Una recente inchiesta di The Post Internazionale ha infatti messo nero su bianco il fatto che gli editori indipendenti sono la minoranza e che spesso anche le testate edite da questa categoria vivono della pubblicità di colossi come Eni, che ha trovato spazio anche sulle pagine di Domani, giornale, appunto, indipendente, nonostante esso abbia pubblicato inchieste sull’azienda. E quindi diventa lecito, per un lettore, chiedersi quanto a fondo possono scavare le inchieste giornalistiche perfino sui media indipendenti.
Appena fuori dai nostri confini, il 16 ottobre 2017 veniva uccisa Daphne Caruana Galizia, giornalista maltese che tramite le pagine virtuali del suo blog Running Commentary e su quelle dei quotidiani Times of Malta e Independent aveva denunciato la corruzione esistente nel suo Paese e l’esistenza di un’intricata rete transnazionale di riciclaggio. Un’autobomba ha messo fine alle sue minuziose ricerche che si sono intrecciate anche con la grande inchiesta Panama Papers che ha rivelato i nomi di politici e banche che hanno il controllo di società situate nei paradisi fiscali.
Ci sono poi casi recenti di cronaca che hanno riportato l’uccisione di giornalisti: da chi stava coprendo la cronaca della guerra in Ucraina a chi si occupava della questione palestinese, come le giornaliste palestinesi Abu Aqleh e Ghofran Warasnah, rimaste entrambe uccise dalle forze israeliane durante lo svolgimento del proprio lavoro.
Andare sul campo con il giubbotto antiproiettile che recita a chiare lettere “Press” è sempre meno sicuro per i reporter, che nelle zone “calde” dei conflitti diventano bersagli. Mettere a tacere le loro voci è un duplice danno: oltre alla perdita umana c’è la mancanza di informazione diretta, quella che serve a contrastare la propaganda, parola di cui abbiamo ricominciato a comprendere la pericolosità durante questi mesi di guerra in Ucraina.
Tenere traccia dei paesi nei quali la censura è più dura e delle notizie di uccisioni e arresti di giornalisti aiuta a capire dove bisogna guardare per comprendere i grandi interessi nascosti da politici, banche, persone di potere. Così si riesce a connettere le cause con gli effetti, a riconoscere le responsabilità di una crisi umanitaria, a capire il sottotesto della conferenza stampa di un Capo di Stato o di un ministro.
Le grandi inchieste su corruzione e paradisi fiscali sono sempre più il risultato dell’unione e della coordinazione delle competenze di giornalisti che collaborano a uno stesso lavoro da nazioni differenti: chi fa questo tipo di giornalismo, come l’Organized Crime and Corruption Reporting Project, sostiene che per combattere questi fenomeni che si sono drammaticamente globalizzati negli ultimi cinquant’anni, è parallelamente necessario globalizzare il metodo di lavoro giornalistico, per avere una rete solida a tutela di chi denuncia e una condivisione di informazioni che aiuti sempre più a proteggere la democrazia o a crearne le condizioni dove necessario.
Il livello di censura presente in Russia (nel report 2022 di RSF alla posizione 155/180) è arrivato a questo punto a causa delle leggi sempre più aspre del governo, che dal 2012, con emendamenti sempre più stringenti, ha progressivamente reso complicato, quando non addirittura impossibile, svolgere in modo libero il proprio lavoro a giornalisti e media indipendenti, con il triste culmine giunto dopo lo scoppio della guerra a fine febbraio scorso.
Anche l’Afghanistan, altro paese recentemente molto presente nelle cronache di esteri, è vessato da un regime, quello talebano, che sta fortemente condizionando la libertà di stampa nel Paese, che nel report 2022 si trova subito sotto la Russia, al 156°posto.
E ancora c’è Libano dove la libertà di stampa si attesta solamente al 130° posto, e anche qui la corruzione è talmente profonda da aver condotto il Paese a un default economico e a una crisi energetica e alimentare che è destinata a peggiorare con la crisi del grano generata dalla guerra in Ucraina.
Più i problemi politici, economici e sociali di una zona sono radicati e gravi, più è pericoloso per i giornalisti, locali e inviati, fare bene e in sicurezza il proprio lavoro, e anzi, spesso la solitudine è l’unico compagno che rimane a chi opera in questi contesti.
Tornando dentro i nostri confini, se pensiamo a giornalisti sotto scorta perché hanno avuto il coraggio di denunciare, ci viene in mente Roberto Saviano, ma la verità è che ce ne sono molti di più. Donne e uomini che ogni giorno si espongono per raccontare le storture in tema di migrazioni, politiche pubbliche e corruzione e che per questo vivono sotto costante minaccia di morte, spesso sfidando precarietà e solitudine. Iniziare a riconoscerli e a dar loro valore, e da parte degli addetti ai lavori dare più spazio alle loro parole è un primo passo necessario per superare i confini del giornalismo solitario e per restituire un senso alla locuzione “quarto potere” con cui identifichiamo l’importanza di questa professione.
Alla scoperta di realtà poco conosciute. Analisi dell’immediato presente. Curiosando nel tempo libero.
Fatti, e non, che ci piace sapere.
La presa di Taiwan potrebbe segnare il fallimento delle democrazie liberali
di Amina Al Kodsi
Il ministero della Difesa di Taiwan ha affermato che, nella giornata di lunedì, 30 aerei militari cinesi hanno fatto irruzione nella parte sud-occidentale della sua zona di identificazione della difesa aerea (ADIZ). Inoltre, secondo un audio top secret trapelato dall’esercito, la Cina avrebbe già pronto un piano di invasione di Taiwan. Il piano prevederebbe il dispiegamento di 140.000 uomini, 1000 navi e 38 aerei militari. La crescente pressione della Cina sulla piccola isola di Taiwan non costituisce purtroppo una novità. L’isola, pur essendo de facto uno stato sovrano, è da tempo rivendicata dalla Repubblica popolare cinese che vorrebbe esercitare il controllo su di essa attraverso l’applicazione della formula politica “un paese due sistemi”, coniata più di quarant’anni fa dal leader politico Deng Xiaoping e successivamente applicata ad Hong Kong e Macao.
L’ascesa al potere di Xi Jinping, con la sua politica accentratrice e repressiva ispirata alla retorica del “sogno cinese”, ha dato una significativa spinta al processo di assimilazione dell’isola a Pechino. Il 2 gennaio 2019 il presidente cinese, durante un discorso programmatico, aveva addirittura parlato dell’unione con l’isola tramite terraferma come di un fatto “inevitabile”, da attuare anche con la forza, se necessario.
La capitolazione di Taiwan equivarrebbe alla fine della più sviluppata democrazia asiatica. Lo stato insulare è stato infatti il primo paese asiatico a introdurre il matrimonio tra persone dello stesso sesso nel 2019 ed è oggi uno dei primi nel continente in termini di libertà di espressione e di religione, diritti delle donne e diritti LGBTQ.
Si tratterebbe insomma di un’altra dolorosa sconfitta per le democrazie liberali che, mai come in questo momento storico dopo la seconda guerra mondiale, si trovano in affanno.
Il recente scoppio del conflitto in Ucraina all’inizio di quest’anno ne è un lampante esempio e, oltre ad aver accelerato l’ormai sempre più probabile scontro USA-Cina, costituirebbe, per gli osservatori più cupi, un vero e proprio presagio funesto. Un preludio ad uno nuovo world order segnato dalla fine delle democrazie liberali e dall’ascesa degli autoritarismi.
Il mondo in cui viviamo oggi è sempre meno libero. La deriva autoritaria in paesi come la Turchia e l’Ungheria, il governo populista del Brasile di Bolsonaro e il golpe militare in Myanmar sono solo alcuni fra gli esempi del deterioramento e della corruzione dei principi democratici che hanno regolato il mondo dalla seconda guerra mondiale ad oggi. Sono il risultato di una lenta, quanto inesorabile erosione dei pilastri delle democrazie moderne che passa attraverso la manipolazione dei mass media, la circolazione di fake news e i processi elettorali truccati e che ha progressivamente aperto le porte a autocrati e populisti.
Mai come oggi è necessario che la democrazia reagisca con forza e risolutezza di fronte alla brutalità e all’aggressività di leader autoritari. La storia ci ricorda che le concessioni territoriali, non importa quanto piccole o insignificanti possano sembrare, non sono mai la risposta giusta. L’Anschluss di Taiwan non potrà che avere conseguenze devastanti, la cui risonanza andrà ben oltre il continente asiatico stravolgendo gli attuali assetti geopolitici globali in favore di regimi sempre più autoritari.
Portami al cinema. Non uno qualsiasi…
di Chiara Rebeggiani
Delmore Schwartz, figura ineguagliabile e leggendaria della letteratura statunitense, in uno dei suoi racconti descrive in maniera impeccabile le sensazioni che tutti, almeno una volta nella vita, abbiamo provato andando al cinema.
Perché questo consiglio? Abbiamo vissuto due anni di chiusure in tutti i sensi, colpa della pandemia. Non poter andare al cinema è stata una di quelle tante cose che più mi è mancata. C’è da dire che di base andare al cinema è sempre un’esperienza strana e se vogliamo intima. Vi è mai capitato di pensarlo ? Cioè quell'esperienza audiovisiva che si traduce con lo stare in una sala enorme con perfetti estranei, masticatori seriali di popcorn, commentatori “spoileristi”, ecc.
L’altro giorno “spulciando” il profilo Instagram di una mia amica, ho scoperto l’esistenza della modalità luxury dei nuovi cinema. Poltrone grandi come letti con le sedute reclinabili, lo spazio per allungare le gambe e le copertine per i freddolosi; il cinema dei comodi, la messinscena di ciò che per un attimo può darci l’effimera sensazione di poter sembrare ricchi. No! Il cinema di cui voglio raccontare io è un altro. Il cinema scomodo, e sì con la sola voglia di guardare, di saziare uno dei nostri organi di senso con la bocca chiusa.
I cinema d’essai, apparsi per la prima volta negli anni Venti in Francia, erano quei luoghi in cui venivano proiettate pellicole del cinema d’avanguardia a beneficio di un pubblico più intellettuale. Pellicole d’autore, sperimentali e spesso utilizzate dagli autori stessi per far conoscere le proprie opere al pubblico, attraverso questo circuito alternativo alle sale commerciali. Arrivati in Italia negli anni Cinquanta, la prima sala che venne qualificata come cinema d’essai fu il Quirinetta di Roma nel 1960.
Nel passato il cinema d’essai ha fatto conoscere grandi film quali “Roma città aperta” di Roberto Rossellini e film come Ladri di biciclette di Vittorio de Sica.
Quindi bando alle ciance: se sei appassionato di cinema d’autore con un occhio attento a certe tematiche (soprattutto quelle non trattate o poco affrontate dai mezzi di informazione tradizionali) o se anche sei un curioso e vuoi sperimentare una dimensione diversa di vivere il cinema, segnati questi posti. Ne voglio citare solo alcuni che vale la pena provare:
Cinema Farnese, a Piazza Campo de fiori, l’antichissimo cinema che proietta pellicole di assoluta qualità. Perché mi è piaciuto: perché mette a disposizione solo lo stretto necessario alla visione: sedili, e schermo. Non troverai popcorn, consiglio di respirare a fondo tutti gli odori presenti in sala.
Nuovo Sacher di Nanni Moretti, questo cinema si trova nell’ex edificio del Dopolavoro dei Monopoli di Stato, a pochi passi da Porta Portese. La programmazione si basa su pellicole selezionate dai festival internazionali o tra gli autori emergenti. Io ho provato l’arena Nuovo Sacher all’aperto in estate.
Cinema delle Provincie della Parrocchia di Sant’Ippolito è quello spazio funzionale che coniuga, attraverso la multimedialità, la missione evangelizzatrice di ogni comunità particolare e le complesse dinamiche della comunicazione e della cultura.
“La sensazione è quella di trovarmi in un cinema, gli occhi fissi sullo schermo, il lungo fascio di luce che attraversa il buio, intermittente e narrante. Gli attori camminano troppo svelti e sembra che saltellino; la pellicola è macchiata e striata come se il film fosse stato girato sotto la pioggia”. Delmore Schwartz – Nei Sogni cominciano le responsabilità.