L'epopea invisibile dei dimenticati
Degrado, sporcizia, delinquenza, vite ai margini della strada sono la doppia faccia di una società che non lascia spazio alle persone vulnerabili e deboli. Dove sono le istituzioni in tutto questo?
Podcast di Marzia Baldari
Roma nun fa' la stupida
di Alessia Pina Alimonti
Roma è una città a due facce. Da una parte c’è la Roma storica, quella di Piazza Navona, delle grandi Chiese e dell’Altare della Patria. Dall’altra parte c’è la Roma degradata, quella dei senza tetto, dei cumuli di spazzatura e dei cinghiali che passeggiano per strada.
Il Colosseo è il simbolo di Roma sia per tutta la storia che ha raccontato, sia per la storia che racconta oggi. L’Anfiteatro Flavio è circondato dalla trascuratezza. È costeggiata da un lato da Via degli Annibaldi, strada lasciata all’abbandono con i marciapiedi sommersi da erbacce. Si snoda sull’altro lato del Colosseo via dei Fori Imperiali, cantiere a cielo aperto con i lavori della Metro C avviati, fermi e in corso d’opera da diversi anni. Non una bella premessa per i turisti.
Ciò che è cambiato a Roma è il sindaco, ma la sostanza è sempre la stessa. Quello che manca è proprio l’azione delle istituzioni. Spesso girando per Roma, coloro che si occupano della pulizia delle strade sono ragazzi poveri, senza un lavoro, immigrati, stranieri, persone che per guadagnare qualche soldo, armati di scopa e rastrello, spazzano via dalle strade foglie e cartacce. All’angolo della strada lasciano un barattolino di latta in cui i passanti più generosi fanno tintinnare alcuni spiccioli. Ma le monete sono sempre poche, spesso sono più quelle di rame che quelle d’oro.
Bisogna cambiare direzione. Non dobbiamo aspettarci il cambiamento dall’alto, dobbiamo essere noi il cambiamento. Prendiamoci più cura delle nostre città, non diciamo: “Tanto che fa? È solo un mozzicone”. Se non vogliamo vedere il degrado, non contribuiamo al degrado.
Se dovessimo incappare per strada in una povera signora come quella in foto, un passo verso il cambiamento potrebbe essere: “Ti aiuto io, non ti preoccupare”, invece che girare le spalle.
Roma città del degrado è un problema, i problemi non devono diventare polemiche, i problemi vanno denunciati, affrontati e risolti.
Ai confini del mondo di superficie
di Chiara Rebeggiani
Ai margini della strada spesso troviamo rifiuti, immondizia, cose buttate via che non ci servono.
I margini della strada sono l’estensione di una società che non ha adottato politiche integrative a favore dei senza tetto, dei poveri, dei rinominati non senza un po’ di disprezzo “barboni”. Eppure, il Parlamento Europeo ha parlato della questione dei senza fissa dimora come una “delle forme più gravi di povertà e di privazione che deve essere abolita mediante politiche mirate e integrate”.
Su carta sono tante belle parole che fanno effetto. Anche quest’immagine fa effetto: una donna espleta i propri bisogni in un cartoccio incurante di chi possa guardarla.
Non c’è da preoccuparsi, gli ultimi sono i nuovi fantasmi, ci sono ma non li vediamo o meglio preferiamo evitarli. Non sono un problema finché non recano disturbo alla quiete.
16.000 senza fissa dimora solo su Roma non sono un problema? Le associazioni di volontariato come la Caritas Diocesana e molte altre cercano di affrontare il problema offrendo una copertura capillare del territorio operando tramite le parrocchie. Poi ci sono le forze dell’ordine e i servizi sociali. Ecco le politiche mirate.
Loro sono i dimenticati della nostra società, i dimenticati nel sottosuolo Dostoevskiano. Chi vive nel sottosuolo nega o distrugge le abitudini sociali cristallizzate creando disarmonia radicale tra ciò che è intimo e informe e ciò che ha smercio sociale.
Dietro a queste figure ci sono storie di sofferenza, di abusi, di droga, di disagio mentale e di fallimento e l’essere umano per la sua fragilità se non provvisto della giusta luce finisce in questo sottosuolo luogo di spettri esistenziali, incapace di affrontare la durezza della vita o semplicemente abbandonato ai margini della strada come immondizia, inutile per la società, da buttar via. L’emarginazione sociale è un argomento che riguarda tutti noi e anche se facciamo finta di non vederli i senza tetto fanno parte del tessuto sociale e meritano attenzione e solidarietà.
Il fallimento della società del benessere
di Paola Sireci
Il boom economico, demografico e mediatico scoppiato nel secondo dopoguerra tra il 1957 e il 1963 ha dato luogo a quella che lo storico Eric Hobsbawm ha definito “età dell’oro”, per l’enorme crescita economica e la trasformazione sociale che hanno modificato la società umana nel senso più profondo.
In Italia, in particolare, ne sono stati simbolo la diffusione degli elettrodomestici, delle automobili, l’esodo del Meridione verso il Settentrione per lavorare nelle fabbriche e, più in generale, lo spostamento dalle campagne alla città, lo sviluppo del settore industriale, l’avvento della televisione, tutti elementi che hanno contribuito alla definizione della società di massa. Parallelamente allo sviluppo “materiale” si è configurato quello ideologico, fatto di critica, contestazione, di risveglio politico. La ridefinizione di certi valori, ideologie, l’avvento della democrazia hanno significato per il nostro Paese l’affermazione di una nuova Italia, emancipata, fresca e giusta, la cosiddetta “Società del benessere”.
A distanza di anni essa si è evoluta mantenendo lo stesso assetto, con nuove forme di comunicazione, con la nascita di professioni innovative e con la crescita di tutti i settori produttivi e servizi eppure, paradossalmente, il progresso della società contemporanea, col passare degli anni, ha prodotto e produce una crisi di valori etici che sprofonda trasversalmente in vari ambiti.
Questa fotografia è la fotografia del fallimento di quella società del benessere tanto ricca grazie al progresso, quanto vuota per l’abitudine troppo frequente di soppiantare ogni valore etico e ogni dovere morale: un essere umano alienato dalla propria identità, intimità e dignità ai margini di una strada che metaforicamente ne rappresenta il suo ruolo in questa società tanto ricca da un lato, quanto fatiscente per molti altri. È davvero giusto parlare di progresso in termini positivi e salvifici dal momento che esso stesso non è inclusivo ma, al contrario, lascia indietro la parte più vulnerabile e debole della società?