La sorprendente bellezza. L'isola di Corfù in 9 giorni on the road
Come te la spiego un’isola greca che secondo il parere di tutti non sembra “la Grecia”? Una realtà descritta, nella narrazione comune, solo attraverso analogie (con Paesi stranieri) e differenze (con le sorelle più popolari). Sorprendente: non posso che descriverla così.
Parlo di Corfù, una lingua di roccia che emerge dalle acque del Mar Ionio, limpide, scintillanti. Con un territorio fitto di storia e di vegetazione rigogliosissima, questa macchia di verde intenso, nel panorama marino, è una scoperta continua di paesaggi inaspettatamente peculiari.
La Grecia che non ti aspetti
Prima di partire, ho raccolto le opinioni di più persone che erano già state a Corfù. Tutte hanno concordato sull’atipicità dell’isola rispetto ad altre mete greche, inserendola tra i nei delle loro rispettive vacanze.
Dopo poche ore dal mio arrivo ho capito cosa volessero dire: niente casette bianche con gli infissi colorati e il tetto piano, né villaggi con la classica pavimentazione nera e bianca a cui ci hanno abituato le migliaia di foto delle Cicladi postate sui social. Prezzi relativamente alti e poco di quel folclore di cui il cinema ci ha reso tanto partecipi.
Eppure, quella Grecia lì, non mi è mancata per niente. Al suo posto ho trovato sconfinati boschi di ulivi secolari alti dai 10 metri in su, orizzonti puntellati dalle chiome affusolate dei cipressi, il senso della proporzione in tutta l’architettura e nell’edilizia che ho potuto vedere.
Da Palaiokastritsa a Paxos
Essendo un’amante dei viaggi on the road, anche questa volta il mio itinerario si è sviluppato contando su più punti di appoggio.
Ho trascorso le prime 4 notti nel villaggio di Palaiokastritsa, a nord ovest dell’isola, altre due nella cittadina di Lefkimmi, a sud est, e l’ultima notte a Kerkyra (o Corfu Town, o Corfù città) — i nomi in greco hanno un altro sapore.
Tra le perle del nord
Da Sidari a Kavos, il paesaggio si smussa e le spiagge si allungano, la sabbia prevale sui ciottoli, i fondali si appiattiscono sotto un mare molto più mosso. La collana di calette che corona il nord corfiotta si disgrega nella discesa verso il meridione e l’orizzonte si distende.
Nei primi giorni ho visitato le mete più popolari vicine al mio alloggio: la Grotta blu, le spiagge Glyko e Agios Georgios, il Canal d’Amour, i piccoli villaggi della costa nord orientale (Kalamaki, Kassiopi, Kalami) e le cittadine più grandi di Dassia e Ipsos. E’ un tour che richiede 2/3 giorni almeno, con soste brevi tra l’una e l’altra destinazione, perché le strade tortuose allungano notevolmente le distanze, ma ne vale la pena, anche solo per ammirare quel peculiare arazzo di piante di fico, pergole di vite e muri a secco.
Un capitolo a parte, lo devo all’avventura di Porto Timoni, dove per poco non mi sono rotta un osso — dalla sommità del minuscolo centro abitato di Afionas al mare è un bel tragitto a piedi, su un sentiero di montagna molto dissestato — e dove ho vissuto i 10 minuti forse più calmi della mia vita, immersa nella natura con nessun altro intorno.
Il soggiorno a Palaiokastritsa si è concluso sui granelli dorati di Paralia Myrtiotissa (più volte definita la più bella del mondo), acquattata ai piedi un’alta scogliera di arenaria, bagnata da onde cristalline e colorata da un tramonto commovente (spoiler: sulla stessa strada si trova la taverna Elia che consiglio di provare, magari a cena, dopo la nuotata di fine giornata). Un luogo a cui dedicare del tempo, semplicemente per stare fermi e aspettare che la luce del sole cambi i connotati dell’universo.
Tre giorni nell’estremo sud: dalla laguna di Korission all’isola di Paxos
Lefkimmi — seconda città per numero di abitanti e patria di uno dei ristoranti dove ho mangiato meglio (Agkali) — è stato il punto d’appoggio perfetto per visitare alcune località di cui mi ero innamorata già da casa, leggendo poche righe stampate sulla guida Lonely Planet appositamente comprata per l’occasione: Korission, Paxos e Antipaxos.
La prima è una laguna che per poco non è stata inghiottita dal mare, grazie all’interposizione di un solo e sottile lembo di sabbia, circondata da una distesa desertica che rende il paesaggio ancora più intrigante e particolare.
Paxos e Antipaxos sono invece altre due piccole isole, di cui avevo letto, visto e poi ascoltato (direttamente in loco) meraviglie tali da non poter resistere alla tentazione di un tour di mezza giornata. Tornando indietro, sinceramente, non opterei per una soluzione già organizzata, ma sono comunque felice di avere impressi nella memoria il porticciolo di Gaios e le sfumature turchesi della baia di Mesovrika — se non fosse stato per la folla, sarebbe stato uno dei bagni più belli in assoluto.
Il terzo giorno a Lefkimmi, è coinciso con il primo a Kerkyra, ma prima di abbandonare definitivamente il costume in valigia, una piccola deviazione a Pelekas, mi ha regalato l’ultimo emozionante bagno delle ferie estive.
La città felice
In quei fortunati punti geografici in cui storia, arte, gastronomia e natura pare siano fatte delle stesse sostanze, le persone sorridono più facilmente e, generalmente, sono propense ad accettare le cose per come sono (e come vengono) e a parlare con il prossimo. La Grecia è così, ovunque, ed è una caratteristica che mi ha sempre ispirato fiducia e ammirazione.
Corfù Città rientra appieno in questa descrizione. Sviluppatasi sotto varie dominazioni (da quella dell’Impero romano di Oriente a quella della Repubblica di Venezia), è facile notarne la stratificazione storica: l’architettura degli edifici che si susseguono nelle affollate viuzze del centro, racconta chiaramente il passato più “italiano”, come le chiese bizantine dimostrano l’appartenenza alla cultura ortodossa.
I bar, le taverne, i forni disseminati nel tessuto urbano accolgono i visitatori con l’orgoglio di usanze ed odori dalla tradizione secolare. Aglio, cipolla, koum quat e caffè sono sì sapori, ma interpretano anche modi di essere e di intendere la vita (e questo, quando lo capisci, ha un valore inestimabile).
Lo Ionio poi è sempre lì, a due passi da tutto, incredibilmente limpido e invitante, godibile.
Una città della misura che ti sazia, ti meraviglia, ti rende felice.
Tutto fantastico, ma c’è una lunga nota a margine 👇🏻
Dal Grand Tour all’ Over-tourism: l’importante è dimostrare che ci siamo stati anche noi
Mai come quest’anno ho toccato con mano i tragici effetti della pessima svolta presa dal fare turismo. Fare, appunto, e dunque non godere, indugiare, sperimentare o altri vocaboli inerenti alla sfera del viaggiare: una forma all’infinito spia di quell’insano desiderio di business a causa del quale stanno soffrendo i luoghi più belli del Pianeta. L’over-tourism, come viene definito, è un fenomeno spaventoso, ennesima riprova della bulimia collettiva a cui ci ha schiavizzato il consumismo.
Corfù è un’isola con poco più 100mila abitanti. Secondo diversi residenti locali con cui ho potuto parlare, la popolazione media giornaliera, nel solo trimestre giugno-agosto, è stata circa del triplo. Cifre che sicuramente non possono essere considerate ufficiali in senso giornalistico, né tanto meno affidabili, però attestano ufficialmente la percezione di invasione sperimentata dai corfiotti.
Io stessa sono rimasta scioccata dalla quantità di traffico smaltita da quelle stradine strette e dissestate di campagna. I primi giorni nella cittadina di Palaiokastritsa, complici anche le stesse festività greche, la mattina potevo contare decine e decine di macchine incolonnate sulla strada passante davanti allo Studios in cui alloggiavo.
«Il turismo è cambiato» mi hanno raccontato i vecchi proprietari di un caffè in cui andavo a fare colazione:
«Fino a 15/20 anni fa venivano prevalentemente famiglie che trascorrevano un intero mese qui sull’isola. Erano persone a cui ci si legava, perché tornavano ogni anno. Poi il tempo ha iniziato ad accorciarsi e alla fine anche la tipologia di turista è cambiata. Ora vengono quasi esclusivamente giovani che vogliono divertirsi e che hanno pochi giorni a disposizione in cui concentrare visite in posti diversi. Anche i soldi sono di meno. Comunque questi sono i tempi, possiamo solo abituarci!».
Una testimonianza che dimostri, più chiaramente di questa, come stanno evolvendo le nostre abitudini, credo sia difficile trovarla.
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Un tempo esisteva il Grand Tour: viaggio attraverso le principali città e zone d’interesse artistico e culturale europee, considerato, nei sec. 18° e 19°, parte essenziale dell’educazione di giovani di buona famiglia [fonte: Treccani]. Non posso fare a meno di pensare che, con le possibilità di cui godiamo oggi, questa tradizione sarebbe ancora più democratica e fruttuosa, eppure dobbiamo fare i conti con una prassi totalmente antagonistica - quella dell’over-tourist (se può sussistere tale definizione) - secondo cui, in un lasso di tempo concentratissimo, si infilano quante più mete possibili, per consumarne gli aspetti maggiormente spettacolarizzabili e andare via arricchiti di nulla.
In tutto il mondo, infatti, l’effettiva estensione dell’opportunità di viaggiare – processo in atto da circa un ventennio - a fasce della popolazione che in passato non potevano permetterselo economicamente, è coincisa da un lato con la drastica riduzione del tempo libero a disposizione dei viaggiatori, dall’altro con l’ascesa dei social che hanno trasformato l’esperienza turistica in un giro al parco divertimenti.
Le nostre vacanze sono pilotate da milioni di foto e video caricati sul web e che hanno il potere di muovere masse, sempre più consistenti, verso quel luogo o quell’altro: un’alta conseguenza della globalizzazione, che ha reso il mondo più accessibile, ma ha anche contribuito a creare un bisogno diffuso di esperienze sempre nuove, alimentando il circolo vizioso del over-tourism.
Arriviamo in terre amene con il desiderio di scattare e riprendere, per il gusto di inserire un’altra destinazione nella lista dei “fatto” e di dimostrare al mondo – lo strumento principale ce lo abbiamo quasi sempre in mano - che ci siamo stati anche noi.