LA LINGUACCIA. Quando tropicale non è paradiso: il triste epilogo delle quattro stagioni
La nostra società attraverso l'etimologia, a cura di Teresa Giannini
Caro lettore,
questa edizione de La linguaccia non era in programma, ma sentivo il bisogno di condividere una riflessione su una parola che nelle nostre vite ha sempre avuto un fascino irresistibile e che oggi deve spingerci a proteggere l’unicità del nostro habitat. Una nota a margine delle vere e proprie tempeste che hanno colpito Roma negli ultimi giorni.
Fino a qualche anno fa, alle scuole medie e alle superiori, i professori di geografia potevano fornire una precisa classificazione e localizzazione dei climi terrestri, distinti in prima approssimazione in sei tipi fondamentali: tropicale, arido, temperato (caldo e freddo), equatoriale e polare. Dopo, di solito, aggiungevano che quello Mediterraneo è un particolare genere di clima temperato. Tutto molto chiaro e soprattutto definito come se ogni zona climatica avesse un perimetro netto e abbastanza rigido.
Eppure, da qualche tempo a questa parte, tutti abbiamo dovuto fare i conti con manifestazioni metereologiche abbastanza insolite, per quello che ci è sempre stato descritto come il clima specifico della nostra regione geografica.
Non molti anni addietro, “le mezze stagioni non esistono più” era un’espressione appartenente al frasario dei luoghi comuni e detti popolari utili a evitare imbarazzanti scene mute, nelle conversazioni informali. Il suo significato è sempre stato all’incirca vero, ma mai in modo tanto drastico e preoccupante quanto oggi.
Purtroppo siamo arrivati ad un punto dal quale – la quasi totalità della comunità scientifica concorda su questo – non torneremo più indietro e tutto ciò che possiamo fare è adattarci. L’alternarsi atipico di siccità e forti piogge, che sta inesorabilmente destabilizzando ogni sfera della vita quotidiana, ha spinto scienziati e esperti climatologi a parlare di tropicalizzazione.
Tropicale è un aggettivo che, intuitivamente, indica appartenenza o relazione ai tropici della Terra, ovvero i due paralleli più vicini all’equatore: il Tropico del Cancro e il Tropico del Capricorno.
I vocaboli come questo danno per assodato, in chi li ascolta o si trova diversamente a doverli recepire, una conoscenza del mondo non proprio banale.
Pensateci un attimo: alto è un aggettivo, ma se non se ne conoscesse il significato sarebbe sufficiente cercare la parola sul dizionario e leggerne la definizione, fatto! Con tropicale, come ad esempio per italiano o cinese, peruviano e simili, sarebbe impossibile fermarsi alla prima spiegazione, perché questa è sempre e solo del tipo “inerente a, che si riferisce a” e, di logica, imporrebbe una ricerca ulteriore per Italia, Cina e Perù. Così si scoprirebbe che si tratta di tre regioni terrestri delimitate da confini molto precisi e che si trovano da questa o da quella parte del globo. Ma riflettendo bene, nelle espressioni che chiamano in causa altri aspetti oltre alla pura geolocalizzazione di quei luoghi, sapere dove questi si trovino e che forma abbiano in fin dei conti serve a poco.
Quando sento parlare di clima tropicale, ad esempio, penso a Bora Bora, Tahiti e figuro tutto fuorché una tempesta minacciosa come quella che due giorni fa si è abbattuta su Roma (e su diverse altre città del Paese, con effetti anche peggiori).
Il mito dei tropici e delle loro acque cristalline, delle spiagge chilometriche immerse in paesaggi mozzafiato, è stato alimentato dall’arte in ogni sua forma e spinto all’estremo dalle più svariate compagnie di viaggio. Mi sorprenderei davvero se qualcuno mi dicesse di non aver mai sognato di visitare un’isola tropicale, ma l’Europa non ha neppure un chilometro quadrato compreso nella fascia dei due paralleli magici e quando gli esperti affermano che il nostro clima si sta tropicalizzando, non hanno in mente sabbie bianche, palme e un’improbabile abbronzatura natalizia, no.
Per definizione, il clima tropicale è caratterizzato da un versante con rovesci
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