LA LINGUACCIA. Le bestemmie a Roma: a raffica, come le bolle di sapone
La lingua che descrive il mondo di oggi, a Roma. Di Teresa Giannini
LE PAROLE A ROMA
Una non-romana che racconta Roma, come lo fa? Innanzitutto ponendosi tante domande e poi provando a estrapolare quelle giuste. Io sono Teresa Giannini, vivo nella Capitale da 12 anni e mi chiedo: c’è bisogno di bestemmiare così tanto?
Bestemmia è una parola antica
Imprecare è un’attitudine umana, di cui si registrano le tracce sin dai tempi più remoti, quando gli antichi greci coniarono il vocabolo blasphēmíā (βλασφημία), unendo le parole bláptein (βλάπτειν), che vuol dire ingiuriare, e phḕmē (φήμη), che significa fama, reputazione. Da qui la traslitterazione latina blasphemia (che letteralmente sarebbe diffamazione) e, dopo varie trasformazioni, bestemmia.
Anche se l’atto di bestemmiare non era circoscritto inizialmente alla sfera divina (i greci non inveivano contro le proprie divinità, per non attirarne la collera), le grandi religioni monoteiste (Ebraismo, Cristianesimo e Islam) lo hanno interpretato come la peggiore delle offese da rivolgere al proprio Dio, condannandola moralmente, spiritualmente e legalmente — tant’è vero che in Italia, ad esempio, bestemmiare in pubblico è stato considerato un reato fino al 1999 e oggi è ancora un illecito amministrativo, passibile di una multa fino a 309 euro.
…e molto italiana
Tra le culture che fanno ricorso più frequentemente alle bestemmie nel parlato quotidiano, quella italiana vince a mani basse il concorso di inverecondia. La nostra lingua, a differenza dell’inglese per citare un lontano cugino, non ha infatti mezzi termini: se deve offendere lo fa pesantemente e se la prende direttamente con il divino, in un confronto a tu per tu.
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Essendo un Paese storicamente cattolico, è normale che proprio qui siano state concepite le bestemmie più fantasiose, soprattutto in quei territori in cui, nel Medioevo, erano viste come un segno di ribellione verso l’autorità politica papale (come le aree che attualmente rientrano nei confini del Veneto e della Toscana). Oggi, in queste regioni, la bestemmia è un vero e proprio intercalare, noto e celebrato anche dalla letteratura, dal cinema, dal teatro e dalla comicità in genere.
Ma a Roma?
A Roma, ahimè, il vituperio contro Dio è una specie di moda dilagante tra i più giovani, una sorta di primordiale strumento di autoaffermazione per gli adulti, e un condimento linguistico tra gli anziani, questo almeno secondo la mia analisi sul campo. Soventemente non c’è nulla di tradizionale o di folcloristico, nulla che strappi via un sorriso o che denoti un particolare estro creativo, ma si tratta di semplice volgarità.
Capiamoci: io stessa dico parolacce, le bestemmie a volte possono anche scapparmi e non giudico i cori che si levano dai tavoli intorno ai quali giochiamo a carte, ma la disinvoltura e la frequenza con cui a Roma volano i Porco D**! la trovo francamente un po’ eccessiva (priva, così com’è, di una radice culturale specifica).
Non voglio demonizzare il turpiloquio in generale, anzi, delle recenti ricerche ne hanno addirittura certificato i lati positivi, come il distogliere la mente da uno sforzo o da un dolore e l’effetto liberatorio che produce in momenti di particolare stress emotivo. E oltre a questo aggiungo che, alla base delle manifestazioni di trivialità linguistica, possono esserci motivazioni diverse dal desiderio di offendere qualcuno o la divinità, come un’improvviso spavento o una gioia inaspettata. Ma detto ciò, perché nelle strade romane risuonano così tante bestemmie?
Lasciamo perdere gli adolescenti, perché per loro potrebbe valere il semplice tentativo di darsi un tono (anche se mi chiedo perché proprio così…) e, allo stesso modo, escluderei i più anziani, perché loro se le saranno portate dietro dalla gioventù, mi concentrerei invece sulla fascia d’età che va circa dai 25 ai 40 anni.
La mia opinione disinteressata è la seguente:
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