LA LINGUACCIA. Il grande malinteso sul problem solving e i fratelli cattivi
I neologismi, le parole che intasano i media e quelle che vengono digitate più spesso: la lingua che descrive il mondo di oggi. Su etimologia e società, di Teresa Giannini
Perché parlare delle parole?
“Ogni lingua sceglie nel tempo il proprio modo di dire il mondo. Perché le parole non descrivono, ma interpretano il mondo in cui viviamo: strutturano, incorniciano, inquadrano la realtà; creano i nostri schemi mentali” - G. Antonelli
Ciao e bentornati a tutti i lettori e alle lettrici de La linguaccia! 😊 Oggi tocchiamo un argomento che aizza non poco la mia vena polemica, ambito lavoro, tema: problem solving. Ma cos’è questa strabiliante abilità personale e perché le aziende la richiedono come se avesse proprietà miracolose?
Problem solving
Attività finalizzata all'analisi e alla risoluzione dei problemi usando tecniche e metodi generici o ad hoc. Il termine può avere un significato leggermente diverso a seconda della disciplina in cui è usato. Nel ramo aziendale: consulenza di esperti che ha lo scopo di risolvere i principali problemi
Wikipedia; Garzanti Linguistica
Fa pendant con: analisi, consapevolezza, memoria, capacità di rielaborazione e risposta, lucidità, gioco di squadra, operatività, pensiero laterale, creatività, proattività.
Si contrappone a: frettolosità, incoscienza, panico, obnubilazione, senso di sopraffazione, sprovvedutezza, vulnerabilità.
Tutt’altra cosa rispetto a: comprare al supermercato pacchi di soluzioni preconfezionate.
Capiamo perché 🧐
Da impiegata a tempo determinato quale sono, frequento spesso app e piattaforme varie per la ricerca di lavoro - per l’esattezza, essendo una neo ex disoccupata, posso vantare un’esperienza pluriennale nel campo.
Di annunci di aziende in fase di hiring (che stanno assumendo) ne leggo diversi e, ma potrebbe benissimo essere una questione di algoritmo (o di oroscopo), posso giurare che nel 98% di questi compare la locuzione problem-solving.
Ad una primissima analisi, davanti a questo dato, potrei concludere che i manager di mezza Italia stiano annegando in un mare di guai. Lavorando per una PMI posso anche comprenderne il motivo: le imprese nate 20 o 30 anni fa operavano in un contesto socio-culturale, economico e tecnologico molto difforme da quello attuale e spesso non hanno le forze per fronteggiare la mole di lavoro richiesta dal cosiddetto mercato omnicanale.
I problemi (di ogni genere) si moltiplicano ad una velocità spaventosa e gli imprenditori, quelli più longevi soprattutto, non hanno le necessarie conoscenze tecniche per risolverli. Ciò che invece hanno, sempre più frequentemente, è il desiderio di tornare a fare il loro lavoro come lo facevano una volta (più precisamente di ripristinare l’equilibrio tra i loro sforzi e i risultati raggiunti) ed è qui che entra in gioco la figura del problem-solver. Un’entità salvifica in grado di alleggerire le spalle di manager e dirigenti d’azienda, sciogliendo le rogne che intasano e rallentano i processi produttivi. E come lo fa? Con una bacchetta magica ovviamente, altrimenti che eroe sarebbe?
Ecco il grande malinteso: credere che alcune persone abbiano l’abilità di far cadere le soluzioni dal cielo, grazie ad una danza della pioggia o rituali analoghi, ma la realtà è che la risoluzione di un problema, uno qualsiasi, è il traguardo di un processo che consta prima di altre due fasi: il problem finding (l’individuazione) e il problem shaping (l’inquadramento). Questi due passaggi, dai quali non può assolutamente prescindere alcun tentativo di solving, sono però bollati come i fratelli cattivi, quelli di cui non vuole sentire parlare nessuno, come a dire che un =10 va bene, ma il 2x5 no.
Io, ad esempio, non sono mai stata del tutto libera di presentare delle problematicità ai miei superiori (mi riferisco sempre al contesto delle PMI), perché ho sempre notato una sorta di brusca risposta immunitaria da parte loro, come se improvvisamente si chiudessero: interruttore dell’ascolto spostato su off.
Inutile insistere su quanto sia necessario, per un lavoratore all’inizio della propria carriera, anche imparare a esprimersi e a confrontarsi su questioni più complesse. In egual modo è inutile sperare nel gioco di squadra con chi ha più anzianità di te. E le tempistiche? Veloce come la luce no, ma il nostro mondo del lavoro quasi pretende anche questo. Finding e shaping? Tempo perso ovviamente, meglio se non ricade nell’orario lavorativo.
In Italia siamo obbligati a vivere il problem-solving come una chiave universale da tenere in tasca e pronta all’uso. La narrazione aziendale perlomeno suggerisce questo, ma non è un modello ragionevolmente applicabile, perché contribuisce a innalzare l’ansia da prestazione, con il rischio di favorire (nel caso di dipendenti alle prime esperienze) il ricorso a soluzioni frettolose.
Le fasi che precedono la risposta risolutiva sono fondamentali, soprattutto per sviluppare una prassi replicabile e generare vero valore. Riabilitare il nome dei due “fratelli cattivi” potrebbe quindi essere il primo passo verso una comprensione più profonda, da parte degli imprenditori, delle nuove dinamiche del mercato di cui fanno parte, e un opportunità da non sottovalutare per far crescere i propri dipendenti più giovani.
E qui sotto?! 👇🏻 Un elenco quasi random di parole da tenere a mente 😁
Dagli archivi di Stay. 🤓
Dall’analisi lucida e disillusa di Amina Al Kodsi sui disagi comuni della società contemporanea, una definizione che ci fa riflettere sulla validità, nel lungo periodo, delle basi su cui abbiamo scelto di costruire le nostre vite.
Zuccherini per i nostalgici 💕
CARTINA. Completamente sostituita da Google Maps e simili (predecessori e figli) la cartina era uno strumento con cui potersi orientare in viaggio. Che si trattasse di una gita di un giorno in città, o di una lunga trasferta on the road, fino agli inizi del 2000 potevi andare in edicola e comprare tutte quelle che ti servivano per arrivare a destinazione senza sbagliare strada. Anche se è ancora possibile trovarle in varie guide turistiche (quelle incollate sull’ultima pagina delle Lonely Planet ad esempio), si stanno avvicinando pericolosamente all’oblio dell’obsolescenza. Propongo di eleggerle a specie protetta!
Ne parlano tutti 🗨🔊
ESCALATION. Fondamentalmente non è una brutta parola. E’ legata all’idea di scalare e al concetto di intensità che, di per sé, non ha una connotazione negativa. Eppure i telegiornali sono pervasi da escalation terrificanti, soventemente identificate come preludi di eventi ancor più catastrofici. Sarà perché in Italia si usa dal 1964, quando servì a descrivere gli interventi militari degli Stati Uniti in Vietnam, e da quel momento non si è più scollata dagli scenari bellici. Un termine potente che abbiamo votato al male e che oggi sta per “qualsiasi azione o comportamento caratterizzati, nel loro corso, da un aumento graduale d’impegno o d’intensità […] spec. di fenomeni negativi: e. di paura, e. della violenza”.