La linguaccia. "Digitale" non viene da "dito"
Storie di etimologia e società a cura di Teresa Giannini
Il nostro mondo (inteso come spazio-tempo), quello in cui ogni giorno studiamo, lavoriamo, facciamo la spesa, ordiniamo la pizza a domicilio, inviamo messaggi, scattiamo foto, registriamo video, guardiamo la TV e così via discorrendo, si esprime in buona percentuale attraverso il vocabolo digitale. Ne è testimonianza la notorietà raggiunta dall'Agenda Digitale che, oggi come oggi, agisce sulle attività governative come una tabella di marcia assolutamente prioritaria. Ma da dove arriva questa parola e cosa descrive nello specifico?
È maggio del 2018 e, nell’aula Moretti della Facoltà di Architettura di Roma Tre, un manipolo di studenti poco convinti, ma attenti, segue una delle lezioni più interessanti del corso di Geometria e modelli matematici. La professoressa è determinata a convincere la classe che la matematica abbia un ruolo fondamentale nello sviluppo della disciplina architettonica. Nel particolare momento che ho in mente mentre racconto, il tema è “la rappresentazione digitale”.
Per chi non lo sapesse, prima dell’avvento dei personal computer, i disegni di un qualsiasi progetto di architettura erano fatti a mano, con riga, squadra, china e, ovviamente, su carta. Ma negli anni, lo sviluppo tecnologico ha decretato l’affermarsi di altri strumenti che, in breve tempo, hanno determinato una vera e propria trasformazione dell’attività progettuale – è il caso dei sistemi CAD, Computer-Aided Design, basati su un processo automatizzato di rappresentazione.
La portata di tale dinamica si può intuire pensando a quegli edifici futuristici di cui si sente parlare ogni tanto in televisione, non di rado ubicati negli Emirati Arabi o in ricche città asiatiche. Ed è per questa ragione che, rivolgendosi a prossimi architetti, non è banale porre domande sul significato di disegno digitale. È per questo che la professoressa è cosciente di aver catturato l’attenzione dell’audience.
‹‹Ragazzi, chi mi spiega da cosa deriva il termine “digitale”?››. Silenzio. Il silenzio della domanda inaspettata e inusuale. Il silenzio del “cavolo, non me lo sono mai chiesto!”. Il silenzio, ma quello bello, della concentrazione, del ragionamento. Poi una voce, non troppo timida, si lancia in un tentativo: ‹‹Forse è legato all’azione di digitare o in generale all’uso delle dita. Penso a come usiamo il computer ad esempio…››.
‹‹Questa è una buona risposta, perché è plausibile. Tant’è vero che i suoi colleghi la stanno considerando come una valida soluzione. E lo è, ma solo in parte. Quello che le è sfuggito e che probabilmente non sapete, ragazzi, è che questo vocabolo arriva a noi, per come lo intendiamo, da una trasposizione. Il termine originale è l’inglese digit, che sta per “cifra”, non per “dito”. Esiste sì il legame con il digitus latino, ma solo perché oltre la Manica è stato prima interpretato come strumento del contare››.
La parola digitale, infatti, descrive ciò che viene rappresentato in forma numerica o che agisce manipolando numeri. Poniamo, ad esempio, di scattare una foto con il nostro smartphone: al momento del click, la fotocamera non fa altro che dividere la scena in tante piccole tessere di un puzzle (i pixel) e codificare in numeri le caratteristiche di ognuna (posizione, luce, colore ecc), per poi ricostruire l’immagine sul display. E questo è solo un esempio tra i più inflazionati, perché la digitalizzazione ha invaso diversi ambiti della quotidianità: TV, archivi, audio, orologi, oramai anche opere d’arte e universi veri e propri (vedi NFT e Metaverso), tutto è digitale o può aspirare a diventarlo.
Le potenziali applicazioni di tale procedimento sono infinite. Forse un giorno avremo profumi in codice e faremo periodici backup dei nostri ricordi su pennette USB, è una questione puramente tecnologica.
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