CONTROCULTURA. Il culto occidentale della magrezza: come è nato e come si evoluto nell’era digitale.
Approfondimenti e riflessioni su attualità, costume e società. A cura di Amina Al Kodsi
Secondo il survey nazionale del Ministero della Salute 2019-2023, i casi di disturbi alimentari in Italia dal 2019 ad oggi sarebbero più che raddoppiati. Se nel 2019 i casi di disturbi dell’alimentazione (anoressia, bulimia e binge eating) erano stati 680.569 ,nel 2022 il numero è salito a 1.450.567. Tra i più colpiti le fasce più giovani che, anche quando non soffrono di disturbi alimentari dichiarati , dimostrano di non avere un buon rapporto con il proprio peso e con la propria immagine corporea. Stando all’indagine annuale svolta dall'associazione Laboratorio Adolescenza e dell'Istituto di ricerca IARD su un campione nazionale di 5.600 studenti fra i 13-19 anni, il 27% degli adolescenti si vede più grasso dei suoi amici, mentre oltre il 50% non è soddisfatto del proprio aspetto fisico. In cima alla “lista dei desideri” per piacersi di più per il 67% delle ragazze c’è quello di essere più magre. La cosiddetta “taglia zero” sembra continuare ad esercitare un’attrattiva irresistibile, specialmente sulle adolescenti. Ma da dove nasce questa nostra ossessione per la magrezza? È difficile individuare il momento esatto in cui la magrezza è diventata un archetipo mainstream nel mondo occidentale. Sicuramente ciò non è avvenuto prima del XIX secolo quando essere grassi era ancora sinonimo di buona salute, bellezza ed agiatezza. Secondo la scrittrice afroamericana Sabrina String, autrice del romanzo Fearing The Black Body: The Racial Origins Of Fat Phobia,in Occidente ed in particolare negli Stati Uniti, la nascita dell’ossessione per la magrezza avrebbe una connotazione razziale. Ai tempi dello schiavismo, il protestantesimo si sarebbe fatto promotore di una temperanza dei piaceri e di un rigido contenimento dei propri istinti, da quelli sessuali a quelli legati al cibo. La magrezza in questo senso veniva considerata non solo un simbolo di morigeratezza, ma anche un emblema di superiorità razziale. La grassezza era, al contrario, stigmatizzata e considerata una prova di inferiorità di razza. Questa era inoltre considerata un simbolo di immoralità ed associata ad ogni genere di eccessi a cui, secondo l’establishment bianco, era solita abbandonarsi la popolazione di colore. L’interpretazione della String è brillante ed originale, anche se il meccanismo che si cela dietro al desiderio di magrezza potrebbe rivelarsi più semplice ed essere spiegato attraverso il principio di scarsità, secondo cui il valore che attribuiamo a qualcosa è inversamente proporzionale alla sua disponibilità. Nella società occidentale in cui ormai il cibo, specialmente il cosiddetto junk food, è ovunque ed è alla portata di tutti, la magrezza eccessiva e il mantenimento della stessa è un privilegio di pochi e può divenire simbolo di prestigio sociale, tanto quanto nel Rinascimento lo era essere grassi.
Non a caso spesso si parla spesso di thin privilege e non a caso le persone ricche oggi sono più magre di quelle povere in paesi come l’America, la Gran Bretagna, la Germania ed in paesi asiatici come la Corea del Sud. La magrezza è diventata lo standard di bellezza dominante degli ultimi cento anni. A partire dagli anni 20 le donne dalle forme rubensiane hanno lasciato spazio a figure esili e androgine. Da allora, a parte qualche timido tentativo negli anni 60 con l’avvento della soubrette stile Marilyn Monroe e, più recentemente, con il prototipo curvy stile Kardashians, non c’è stato un solo momento in queste ultimi decadi in cui una donna snella e longilinea non fosse considerata universalmente molto attraente.
Il ruolo dei social media
La televisione e le riviste hanno da sempre promosso e veicolato canoni e standard di bellezza ed in questo senso i social non fanno nessuna eccezione, anzi. Direi piuttosto che l’ossessione per la magrezza, ed in generale per il proprio aspetto fisico, abbiano trovato nei social, ancor più che nei media tradizionali, un nido confortevole in cui poter crescere e proliferare. Se infatti durante la mia adolescenza il ruolo rivestito dall’immagine era già importante, tanto da farmi ricordare ancora vividamente il cocente desiderio di possedere il microscopico girovita di Kate Moss e di nascondere a tutti i costi le ingombranti forme della pubertà, oggi il culto dell’apparenza è ovunque. Il meccanismo sfruttato da social come Instagram è molto simile a quello che ci spingeva un tempo a sfogliare le riviste di moda, ma è potenzialmente molto più pericoloso e invasivo. Se infatti da adolescenti sfogliavamo Vogue e sognavamo di avere l’aspetto di Eva Longoria, con la consapevolezza di non avere la benché minima possibilità né di somigliarle né di apparire sulla copertina del giornale, ora milioni di teenager sfogliano la home di Instagram con la speranza di diventare una delle pseudo celebrità che affollano la piattaforma. A differenza delle riviste di moda e della televisione, Instagram offre ai propri utenti la possibilità di trasformarsi infatti da fruitori passivi a protagonisti del mezzo di comunicazione che utilizzano. Basta semplicemente mettersi in posa e scattarsi un selfie. Attraverso l’autoscatto, gli utenti della piattaforma, specialmente i più attivi e prolifici, compiono così un quotidiano e reiterato rituale iperindividualista attraverso il quale, nel tentativo disperato di affermare la propria identità, pongono il proprio corpo sotto una lente di ingrandimento che ne evidenzia pregi, ma soprattutto difetti. Questi moderni Narcisi si specchiano per ore nella pozzanghera digitale che restituisce loro un’immagine di sé distorta e falsata dai cosiddetti filtri bellezza. Lo skinny filter look promette, ad esempio, a chi lo utilizza di ottenere un immediato ed affascinante look emaciato, con tanto di guance scavate degne di una heroin chic degli anni 90.
Il body positive e l’illusione della scelta
Per abbattere il thin privilege ed ovviare alla pericolosa diffusione di standard di bellezza irrealistici ed irraggiungibili, da qualche anno a questa parte si sono diffusi movimenti come il body positivity che hanno come obiettivo quello di promuovere un’immagine corporea positiva. Se da un lato le intenzioni del movimento sono nobili, diversi studi dimostrano infatti come il mostrare visi e corpi dalle dimensioni e dalle forme più disparate possa predisporre il nostro cervello a riformulare il concetto che questo ha di bellezza rendendolo più eterogeneo, dall’altro queste campagne pubblicitarie con donne in sovrappeso, con la cellulite e la vitiligine che si abbracciano sorridendo sono permeati di opportunismo ed ipocrisia.
Come affermato dalla cantante Lizzo, nota icona del body positivity, in un’intervista rilasciata a Vogue lo scorso anno, il movimento del body positivity è stato negli ultimi anni strumentalizzato da “donne bianche e magre” per scopi commerciali con il risultato che coloro che all’inizio avrebbero potuto trarre beneficio dal movimento, ne sono ora esclusi. Se all’inizio il body positivity e il femminismo ci hanno fatto credere di poterci effettivamente liberare dal peso delle pressioni sociali, mostrando con fierezza e noncuranza il nostro corpo “imperfetto” come fa Yolanda, la donna raffigurata nella statua che apre quest’edizione, ora è più che mai evidente che si è trattato solo di un’illusione. Jia Tolentino, giornalista e saggista canadese, nel suo ultimo, bellissimo libro Trick Mirror: reflections on self delusion afferma che “il parassita psicologico della donna ideale si è evoluto per sopravvivere in un ecosistema che finge di resisterle”. In questo senso il femminismo, e con esso anche il body positive, non hanno magicamente “sradicato la tirannia della donna ideale ma, piuttosto, l'hanno radicata e resa più complicata". Il body positivity, in particolare, è diventata l’ennesima strategia di marketing di aziende che fatturano milioni di dollari mercificando il corpo delle donne, con l’obiettivo di venderci creme e linee di abbigliamento curvy. Ancora una volta il corpo femminile si è trasformato in un terreno di lotta, un oggetto di contesa fra chi lo vuole curare, modificare, mercificare o ipersessualizzare. Ma perché, mi chiedo, non lo possiamo invece semplicemente dimenticare? Quando siamo ossessionati da qualcosa il consiglio spassionato che riceviamo più spesso da parenti e amici non è forse quello di non pensarci troppo? Come potremmo mai liberarci dall’ossessione per la magrezza e per il nostro aspetto in generale, se continuiamo noi per primi a nutrirla e a radicalizzarla, con tutta questa iperconsapevolezza e i ridicoli discorsi sull’embracement? Spostiamo semplicemente tutta quest’attenzione morbosa e malsana su qualcos’altro. Scegliamo con cura le battaglie per le quali valga realmente la pena combattere, ma soprattutto, smettiamola di illuderci che finalmente ogni adolescente insicura farà magicamente pace col suo corpo perché abbiamo sdoganato le foto delle vene varicose e dei peli sulle gambe, ve ne prego.