Generazione cestinata
“La terremo in considerazione”. Quante volte abbiamo sentito questa frase al termine di un colloquio? E, soprattutto, quante nell’assoluta consapevolezza che nessuno ci avrebbe mai ricontattato? Tante, forse troppe, e per cosa? Lavori sottopagati, senza prospettive e con contratti a breve termine. Il mercato del lavoro è diventato una vera e propria giungla in cui per emergere è ormai necessario servirsi degli espedienti più sofisticati. Oggi per ottenere un impiego non basta più essere plurilaureati, saper parlare correntemente sette lingue e avere all’attivo almeno cinque anni di esperienza. Per avere successo nel mondo del lavoro occorre innanzitutto saper vendere se stessi. Occorre investire in quello che gli inglesi chiamano il personal branding, inteso come l’abilità di impressionare gli altri attraverso la promozione delle proprie capacità. I curriculum vengono così infarciti di ogni sorta di certificazione, titolo e qualifica. Social network come Linkedin, il più noto strumento per la ricerca del lavoro sul web, vengono sempre più utilizzati da milioni di utenti che si contendono l’attenzione delle aziende attraverso l’ostentazione delle capacità, anzi delle skills, più disparate e tramite l’utilizzo ossessivo (e spesso inadeguato) di astrusi termini anglofoni per descrivere praticamente qualunque cosa. Dalle esperienze lavorative scompaiono figure professionali obsolete e fuori moda come quelle dei commessi e degli informatici che lasciano il posto ai sales specialists e ai web developers. L’obiettivo è evidentemente quello di far colpo a ogni costo sugli esaminatori che ogni giorno passano in rassegna centinaia di curriculum. Ma se la fatica è così tanta, quali sono i risultati? Purtroppo difficilmente sono proporzionali agli sforzi compiuti e spesso gli impieghi che si ha la fortuna di ricoprire sono ben al di sotto delle aspettative prefigurate dai profili lavorativi super professionali e iperqualificati sfoggiati con orgoglio sui social.
Amina Al Kodsi
Cercare lavoro è un lavoro a tempo pieno
di Francesca Staropoli
Siamo alle porte della stagione estiva e sulla stampa si è acuita la narrativa degli imprenditori - in particolare quelli della ristorazione e del turismo - che non trovano dipendenti, i quali per la maggioranza sarebbero quei giovani che “non hanno più voglia di lavorare se questo comporta fare sacrifici”. Stando a quanto leggiamo e ascoltiamo in queste settimane sembrerebbe che i giovani, oltre che svogliati, siano anche bugiardi, dato che la piaga del lavoro che non si trova ormai pare completamente ribaltata.
I dati provvisori pubblicati il 2 maggio dall’ISTAT sull’occupazione a marzo 2022 registrano il calo del tasso di disoccupazione all’8,3% nel complesso (-0,2 punti), ma per il lavoro giovanile questo sale al 24,5% (+0,3 punti). Non mettendo sul piatto il fatto che bisogna verificare quali condizioni di lavoro offrono le imprese che non trovano personale, il fenomeno a cui stiamo realmente assistendo in economia si chiama mismatch, termine che descrive il disequilibrio tra domanda e offerta di lavoro.
Per capire da cosa possa dipendere, qualche giorno fa ho partecipato a un seminario sulla ricerca del lavoro attivo tenuto da un dipendente di un'agenzia per il lavoro con esperienza ventennale.
Chi oggi cerca lavoro come dipendente e ha tra i 15 e i 35 anni si trova immerso in un mercato estremamente più complesso e articolato di quello esistente fino a poco prima degli anni 2000. L'accelerazione esponenziale delle tecnologie, che ha dato l’impronta al nuovo millennio, non sta solo ridefinendo i modelli di lavoro, ma ha persino spostato nella dimensione virtuale il mercato del lavoro. Il modo apparentemente più semplice per trovare lavoro oggi è infatti quello di rispondere alle offerte che si trovano su piattaforme online o su annunci pubblicati sui social.
Apparentemente, dicevo, perché poi capita molto spesso di non ricevere nessuna risposta alla propria candidatura. Secondo le statistiche, gli annunci “visibili” - che sembrano tutto ciò che il mercato offre - in realtà rappresentano solo il 30% delle opportunità di lavoro esistenti. C’è, infatti, un 70% di potenziale offerta nascosta agli occhi dei candidati, ed è proprio su questa grande fetta che bisogna agire.
La prima cosa da fare è chiudere internet e fare alla vecchia maniera, parlando con le persone intorno; fare cioè quel networking tanto diffuso su LinkedIn, ma di persona. Serve diffondere la propria ricerca di lavoro non solo tra amici, parenti e conoscenti che possano conoscere aziende a cui inviare il CV, ma anche a soggetti che vivono quotidianamente la geografia economica dei territori e a cui non si pensa quasi mai: enti pubblici, sindacati, agenzie formative, centri per l'impiego, associazioni datoriali e, per l'appunto, agenzie per il lavoro.
Se anche questo non portasse a niente, l’HR suggerisce di riscrivere il CV: evidentemente non cattura l’interesse di chi lo legge in quei 15-20 secondi. E allora serve onestà e volontà di fare un’autoanalisi che comprenda caratteristiche personali, passioni e valori; competenze date da formazione e da eventuali esperienze di lavoro pregresse, ma anche da sport, hobby e situazioni non formali che possono essere d'aiuto nel dimostrare un’attitudine utile a una certa posizione lavorativa. Cruciale, inoltre, sapere cosa si vuole davvero da un lavoro in termini di contributo alla società e di equilibrio con la vita privata: conta di più il ruolo professionale o un tragitto casa-lavoro breve?
Se si vuole rimanere in Italia, sarà utile sapere che il 95,05% del tessuto industriale italiano è composto dalle microimprese, quelle con meno di dieci addetti; le PMI (piccole e medie imprese) sono meno del 5%; le grandi imprese sono solo una parte residuale. Se statisticamente è più probabile imbattersi in un’offerta di lavoro, visibile o meno, di una media, micro o piccola impresa, è anche vero che quelle grandi sono continuamente alla ricerca di personale.
La ricerca del lavoro “invisibile” va così tarata tenendo bene a mente le differenze strutturali insite nelle dimensioni dell’azienda. Le piccole e le microimprese sono poco strutturate: non ci sono ruoli ben definiti, talvolta è difficile delegare e capita spesso che una sola persona svolga mansioni relative a più ruoli. Queste sono le imprese che nella descrizione delle mansioni sono meno precise e che richiedono più flessibilità, non tanto (o non solo) negli orari, quanto nella capacità di problem solving: entrare a far parte di tali realtà è sfidante perché se vi si accede grazie a delle competenze specifiche per un ruolo, non è raro che diventi necessario essere pronti all’interdisciplinarietà.
Per chi ha l’ambizione di ricoprire un ruolo ben definito e avere un job title univoco, la ricerca di lavoro deve essere mirata sulle imprese medio-grandi, quelle che hanno dai 250 dipendenti in su, con un organigramma strutturato. Per queste imprese, però, è ancora più facile che il CV resti un invio a vuoto.
In entrambi i casi, quando non ci sono feedback occorre attuare un piano B che richiede grande determinazione e ancor più voglia di uscire dalla propria zona di comfort. Bisogna preparare una presentazione di sé in punti chiave (l’elevator pitch) e tornare su LinkedIn per risalire al nome di chi si occupa di recruiting per quell’impresa: nel caso delle micro e piccole imprese sarà quasi sempre il/la titolare, mentre per le medie e grandi aziende, che hanno un comparto HR, ci sarà l’HR Specialist. Noto il nome, il primo contatto deve avvenire proprio su LinkedIn per farsi avanti con il proprio pitch e per chiedere il numero di telefono e la mail a cui inviare il proprio CV. Questo primo passo a volte funziona, ma spesso sarà necessario pazientare giorni o settimane e continuare a inviare messaggi e chiamate (attenzione a non farne troppe in un giorno solo, si otterrà l’effetto opposto a quello desiderato). Se la tenacia con cui si dimostra interesse per l’azienda non sfora nel fastidio, questa giocherà a proprio favore: se non per il momento, si aprirà una corsia preferenziale per nuove opportunità lavorative future.
Dal momento in cui si scrive l’autoanalisi a quello in cui si ottiene un colloquio di lavoro possono quindi trascorrere settimane, a volte mesi; un tempo sempre meno sostenibile per chi ha bisogno di lavorare in questa società. La messa in pratica delle strategie richiede tante ore di studio e ricerca al giorno, anche solo per scrivere e personalizzare il CV per ogni impresa a cui lo si invia e che deve essere accompagnato da una lettera di presentazione ad hoc. Se si ottiene l’agognato colloquio, bisogna aver già studiato i siti web e i profili legati all’azienda per dimostrare di conoscerla quando verranno poste domande specifiche. Infine, si attende l’esito del colloquio, che se non si tramuta in un’offerta può anche non arrivare mai, nemmeno facendone esplicita richiesta.
Insomma, anche cercare lavoro è un lavoro, e pure a tempo pieno. Se da una parte condividere queste strategie può dare una mano a chi non conosce i meccanismi del mercato, dall’altra non sorprende che essere consapevoli di come funziona l'offerta di lavoro “invisibile”, che in teoria dovrebbe spronare ad aprirsi più porte, conduca invece a demoralizzarsi. Non è una moda né un capriccio il fatto che i giovani cerchino un modello di lavoro che sia sostenibile a livello sia di orari che di etica aziendale. Per i giovani, la risposta a questa sostenibilità si trova sempre più spesso nell’attività da freelance. I lunghi tempi necessari per farsi notare da un’impresa che poi magari non dà garanzie tra tirocini sottopagati ed eccesso di mansioni per una sola figura professionale, per i giovani potrebbero essere spesi meglio lavorando altrettanto duramente e a lungo per crearsi un loro progetto professionale autonomo, con il vantaggio che questo chiederà di rispondere solo a se stessi (e, chiaramente, ai propri clienti).
Alla scoperta di realtà poco conosciute. Analisi dell'immediato presente. Curiosando nel tempo libero.
Fatti, e non, che ci piace sapere.
Aborto e Stati Uniti: ritorno al passato?
di Chiara Conca
Nel 1969, Norma McCorvey, meglio conosciuta con lo pseudonimo di Jane Roe, sfidò la legge dello Stato del Texas, esprimendo il desiderio di interrompere la gravidanza del suo terzo figlio, pur non essendo in pericolo di vita (presupposto fondamentale per poter abortire). La donna, sposata con un uomo violento, fu contattata da un gruppo di avvocatesse pronte a difendere la sua causa. In rappresentanza dello Stato del Texas, l’avvocato Henry Wade decise di appellarsi alla Corte Suprema, a cui la causa arrivò nel 1972. Per la sentenza si dovette attendere fino al 22 gennaio 1973, quando sette giudici su nove si schierarono a favore della donna sostenendo che «il diritto alla privacy comprende la volontà di abortire».
Negli anni ‘80, poi, l’assemblea legislativa della Pennsylvania approvò l’Abortion Control Act, una legge che istituiva diversi requisiti affinché le donne potessero ottenere il diritto all’aborto nello Stato. Così, nel 1990 Planned Parenthood, un’organizzazione no profit che offre tutt’oggi assistenza sanitaria in ambito sessuale, guidò una coalizione di querelanti che citarono in giudizio il governatore della Pennsylvania, Bob Casey Sr., sostenendo che tali restrizioni erano incostituzionali secondo quanto stabilito con la già citata legge Roe v. Wade. Il caso arrivò, nel 1992, alla Corte Suprema che, nonostante fosse profondamente divisa, confermò tutte le restrizioni, fatta eccezione per l’obbligo di notifica del matrimonio. Tuttavia, i giudici rifiutarono di usare il caso per abbattere la legge del 1973. Al contrario, ne riaffermarono il principio centrale secondo cui il diritto di un individuo di abortire prima che il feto sia vitale è protetto dalla Costituzione.
Nella settimana in cui in Italia si celebra la Festa della Mamma, il quotidiano americano Politico ha riportato di aver ottenuto una prima bozza che attesta che la Corte Suprema ha votato alla maggioranza per annullare il diritto all’aborto. Nel documento, scritto dal giudice Samuel Alito, si legge:
«Riteniamo che Roe e Casey debbano essere annullate. […] È ora di prestare attenzione alla Costituzione e restituire la questione dell’aborto ai rappresentanti eletti del popolo››.
La notizia, ovviamente, ha scatenato le polemiche e lo sdegno fra la popolazione. Fra i contrari, anche il presidente in carica Joe Biden che ha affermato quanto «il diritto di scelta di una donna sia fondamentale» e di come questo «non possa essere cancellato».
Sebbene questo sia un argomento già caldo nel Paese, per il momento si tratta ancora di una bozza. La decisione definitiva è attesa per i mesi di giugno e luglio.
The House of Gucci
di Chiara Rebeggiani
Prima di guardare il film, leggi il libro!
Si sa, c’è una differenza abissale tra quanto descritto in un libro e quanto riportato sul grande schermo, basti pensare al fatto che per scrivere una sceneggiatura che prenda spunto da un romanzo, per renderla adatta, bisogna cambiarla se non riscriverla da capo.
Mi è successo e non voglio ripetere lo stesso errore! Anzi, consiglio vivissimamente di lasciar perdere il film.
Il consiglio del mese prende spunto da una lettura storica, iniziata un anno fa e terminata in questi giorni. Il libro in questione è “The House of Gucci” di Sara Gay Forden. L’idea di proporre questa lettura è nata dopo una discussione avuta con una mia amica, la quale mi chiedeva consiglio su una lettura motivazionale, un compito che le veniva a sua volta richiesto durante un Master in HR. Sulla copertina viene riportato “A Sensational Story of Murder, Madness, Glamour and Greed”, ma il libro non è solo questo. Inizio col dire che questo libro non è un romanzo, non è un libro facile, ma è sicuramente interessantissimo e consiglio di leggerlo in lingua originale. In effetti ogni storia di moda si propone di raccontare non tanto il genio creativo ma l’intrigo, la vita privata ecc. Un esempio tra tanti: la pellicola su Yves Saint Laurent diretta da Jalil Lespert non rende giustizia al genio creativo che era Laurent, ma si focalizza tanto sulla sua vita privata e così tanti altri film, come credo anche l’acclamatissimo “The House Of Gucci” di Ridley Scott, che non guarderò. Perché viene proposto questo? Perché “tira”. Ecco, questo libro non tira se cerchi lo scandalo, l’intrigo, lo scoop.
Sara Gay Forden, autrice del libro e giornalista che si occupa della copertura della fashion industry italiana a Milano, mostra nel suo libro l’attenzione ai dettagli, scrive della dinastia Gucci in modo meticoloso. Attenzione, questo libro è a mio avviso una cronaca familiare e storica a tutti gli effetti ed è questo il bello, perché le case di moda non sono solo scandali e vite distrutte, omicidi e via dicendo; ma sono impegno, costanza, sudore speso, mire espansionistiche, amore e passione per il proprio mestiere. Ecco perché mi è venuto in mente di proporlo come lettura motivazionale.
L’autrice inizia dalla morte di Maurizio Gucci ma poi torna indietro nel tempo, alle origini della maison e al suo ideatore, Guccio Gucci. Seguono trecento pagine in ordine cronologico che forniscono al lettore ogni minimo dettaglio riguardo acquisizioni, contratti, liti familiari inerenti la società, ideazioni di nuovi prodotti; sono inserite interviste ed eventi storici realmente accaduti, come la volta in cui la principessa Grace di Monaco andò al negozio e Rodolfo - il quale nel 1966 stava ideando una nuova sciarpa, la famosa “Flora” - volle omaggiarla facendole un regalo.
Ma proprio qui sta il punto: leggere la storia di una maison non è forse questo? Non è sapere veramente cosa c’è stato dietro? Una delle cose che mi ha colpito maggiormente di questa storia è stata la figura di Guccio Gucci, cioè come tutto è iniziato. Guccio Gucci era il nonno del famoso Maurizio, figlio di Rodolfo Gucci. Guccio lascia il nido presto, si rimbocca le maniche e parte per cercare lavoro altrove, in Inghilterra, di preciso in un albergo. Cos’è che ha fatto la fortuna di Guccio? Il suo occhio clinico e le sue radici. Guccio si guarda intorno, guarda gli ospiti dell’albergo per cui lavora, osserva come si vestono, che accessori indossano. Torna poi a Firenze, città di mercanti, dove si specializza nel trattamento delle pelli: da lì in poi la sua passione nel lavoro, l’impegno, il sacrificio e l’amore per la famiglia, valori che trasmette anche ai figli e ai nipoti, aprono le porte a una delle più famose case di moda italiane. Questo è The House of Gucci, un libro storico, che segue passo dopo passo le vicende di una grande azienda, non una grottesca messa in scena delle dinamiche di una famigliola fiorentina che ha avuto fortuna, come spesso gli americani amano descrivere gli italiani.
“The House of Gucci is a penetrating chronicle of the rise and fall of a family business, one that shows clearly how even big, successful family firms can’t survive without professional management and outside capital, and how the personalities of the founders’ descendants can make selling not just prudent but inevitable.”
Wall Street Journal