FOTOSINTESI DEL MONDO. L’impatto dell’immagine sull’opinione pubblica
Una fotografia è sempre un frammento di realtà? Percezione, storytelling e manipolazione nel fotogiornalismo
Roger Fenton, View of Balaklava from the top of Guard's Hill. Crimea, 1855.
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Il ruolo della fotografia nel giornalismo è quello di accompagnare le parole di un reportage e, talvolta, di permettere al lettore di formarsi un’opinione quando le parole non bastano o non possono esprimere quello che si para davanti agli occhi del reporter nella realtà in cui è calato.
Le guerre diventano gli scenari principi in cui si incarna appieno la funzione del fotogiornalismo: anche noi che viviamo così lontano dalla guerra in Ucraina o dalla gravissima crisi umanitaria dello Yemen, ma anche — temporalmente — dalle guerre del secolo scorso, abbiamo delle immagini mentali che ci permettono di categorizzare quello che succede in una certa area del mondo. Quelle immagini mentali ce le siamo formate grazie ai foto (e video) reporter.
Ma proprio perché la forza dell’immagine riesce a scavalcare quella delle parole e dei dati enumerati nei pezzi giornalistici, è necessario chiedersi: la fotografia che sto guardando mi restituisce un racconto visuale oggettivo o è parziale?
Anche le fotografie, infatti, si possono prestare alla propaganda: un effetto che può essere voluto o non voluto, a partire dallo storytelling che il fotografo ha in mente fino all’inquadratura del singolo scatto per arrivare al fotoritocco tipico dell’era della fotografia digitale di oggi.
Da quando la fotografia ha iniziato a prestarsi al giornalismo, numerosi sono stati i casi di manipolazione delle immagini importanti e impattanti. Fotosintesi del mondo oggi va in Crimea per raccontarne il principio.
La posizione della Crimea nel mondo.
Durante la guerra di Crimea, combattuta tra l’ottobre del 1853 e il febbraio del 1856 tra l’Impero Russo e l’alleanza che includeva Francia, Inghilterra, Impero ottomano e Regno di Sardegna, il celebre fotografo inglese Roger Fenton realizzò un fotoreportage. Il lavoro di Fenton in Crimea si colloca tra marzo e giugno del 1855, tre mesi sul campo per un risultato di circa 360 fotografie.
Fenton fu il primo fotoreporter di guerra nella storia della fotografia, e nel 1853 aveva già creato la prima associazione di fotografia del Regno Unito: la Royal Photographic Society. Eppure, al suo nome si associano anche aspre critiche legate proprio al lavoro svolto in Crimea.
Il committente di Fenton, infatti, non era una testata giornalistica, bensì l’esercito britannico che voleva una testimonianza fotografica della missione in Crimea atta a giustificare l’intervento agli occhi dell’opinione pubblica in patria. E così, quando il fotografo tornò nel Regno Unito ed espose le sue fotografie in una mostra, tutto quello che gli spettatori potevano osservare erano ritratti dei soldati inglesi e delle loro postazioni, ma non c’era traccia della morte e dell’orrore tipico della guerra. Non c’era sangue, non c’erano cadaveri né corpi mutilati. Una guerra “pulita”.
A questa scelta editoriale si aggiungeva certamente la tecnologia primitiva della fotografia dell’epoca, che non permetteva di scattare con tempi dell’ordine di millisecondi come oggi, e anzi Fenton dovette inventarsi una camera oscura sul posto per poter sviluppare i suoi scatti. Una buona fotografia era dunque il risultato di un tempo di posa lungo, e la pericolosità dei luoghi battuti da Fenton non gli permetteva di esporsi a lungo in un punto o di fotografare azioni di guerra. Tuttavia, è sempre utile pensare come anche il fotogiornalismo, fin dai suoi albori, condivida uno stesso tratto critico — l’esposizione alla manipolazione — con il giornalismo della carta stampata (e, più tardi, con quello televisivo).
Torniamo ai giorni nostri, ma non allontanandoci troppo dalla Crimea. L’attuale guerra in Ucraina è abbondantemente raccontata dai media, e non solo da quelli tradizionali. Ne è un esempio il proliferare di TikToker ucraini che con il loro telefonino hanno diffuso video dalle loro città; innumerevoli anche i casi di fake news e di propaganda a causa dei quali ci siamo resi conto dell’importanza dei cosiddetti fact-checker: giornalisti che non producono informazione, ma che sono specializzati nella verifica delle notizie già prodotte sia a livello testuale che audiovisivo. Tanti sono poi i fotoreporter inviati sul campo da testate giornalistiche o, più, spesso, giunti in Ucraina come freelance, che stanno documentando questa guerra.
Se questa abbondanza da una parte espone il pubblico all’infodemia (già mesi fa si calcolava che questa sia la guerra più fotografata e narrata nella storia dei media), dall’altra è una soluzione al problema della realtà manipolata, un modo per oggettivare una visione della guerra che un singolo occhio del fotografo non può restituire, perché il fattore umano e una propria visione del mondo esiste anche nel reporter più in buona fede che possa lavorare in una determinata zona di crisi.
O, per dirla con le parole del più grande fotoreporter finora vissuto, Robert Capa: «In una guerra, devi odiare o amare qualcuno, devi avere una posizione: altrimenti non riesci a sopportare quello che succede».
Rubrica a cura di Francesca Staropoli