La bambina e l’avvoltoio, Kevin Carter, 1993, Sud Sudan.
«Il contrario della paura non sono i buoni sentimenti. Il contrario della paura è capire la complessità».
Queste parole sono state pronunciate da Filippo Grandi, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati, durante l’intervento che ha tenuto all’ultima edizione del Festival della Mente di Sarzana, a settembre.
La frammentazione dell’ecosistema informativo rende sempre più difficile avere una visione d’insieme del legame tra gli eventi del mondo in modo immediato, scoraggiando l’abitudine di informarsi e lasciando spazio a confusione se non paura per le singole cronache di eventi drammatici. Eppure, un mezzo giornalistico che sa restituire immediatezza e completezza portandoci direttamente nei luoghi esiste: è la fotografia, sintesi visiva di una storia, chiave che riapre la porta alla comprensione della complessità.
Questa newsletter si apre con un celeberrimo scatto, “La bambina e l’avvoltoio” che valse al suo autore, Kevin Carter, un premio Pulitzer per la fotografia nel 1994 dopo la pubblicazione sul New York Times, ma che lo portò al suicidio nello stesso anno a causa di una forte depressione seguita alle critiche ricevute.
L’immagine, risalente al 1993, racconta la carestia in Sud Sudan. Carter scattò questa potente fotografia e poi riprese il suo cammino, allontanandosi dalla bambina, denutrita e inerme preda dell’avvoltoio, lasciando alla stessa immagine l’intuizione che la piccola non sarebbe sopravvissuta. L’opinione pubblica fu scossa da quella fotografia - un pugno nello stomaco - e accusò Carter di omissione di soccorso, anche se il fotografo si difese dalle innumerevoli domande rispondendo di aver scacciato l’avvoltoio subito dopo aver scattato. Solo un’inchiesta giornalistica del 2011 ha fatto chiarezza sull’identità della bambina, che era invece un bambino, il quale era riuscito a sopravvivere alla carestia di quegli anni – e quindi al momento immortalato da Carter – e morendo poi quattro anni dopo per una febbre.
Questa storia racchiude un dilemma, fatale nel caso di Carter, su cui non si smette di dibattere ancora oggi: un fotoreporter deve documentare ed essere testimone della storia o, insieme, agire? Che impatto avrebbe la sua interferenza sullo scenario nel quale si trova a lavorare? Qual è la funzione sociale di questo mestiere e del giornalismo in generale?
Se osservare un fotoreportage genera queste e altre domande nella tua mente, allora sei un passo più lontano dalla paura e uno più vicino alla voglia di capire la complessità, per riprendere le parole di Filippo Grandi.
Fotosintesi del mondo cercherà di spingerti a fare un altro passo ancora verso la curiosità di comprendere l’unità delle questioni dei nostri tempi, incollando frammenti visivi e lasciando la parola a un fotoreporter e a un suo scatto significativo in ogni episodio per creare un puzzle completo di cosa accade là fuori, nel mondo.
Rubrica a cura di Francesca Staropoli