Effetto burnout: artisti prigionieri dei social
Secondo il Digital 2022 Global Overview Report, ovvero il report annuale nato dalla collaborazione tra We Are Social e Hootsuite, il tempo medio a livello mondiale speso sui social è di 2 ore e 27 minuti al giorno, con picchi di 4 ore in Nigeria e Filippine, mentre in Italia la media è molto più bassa e si attesta su un’ora e 47 minuti quotidiani. Questi numeri sono un’ulteriore conferma di come i social condizionino le nostre vite e le nostre scelte. Sempre con la testa china sullo schermo dello smartphone, trascuriamo il mondo che ci circonda e ignoriamo le persone intorno a noi, ci ritroviamo soli con un telefono in mano. Una situazione rappresentata dalla foto che abbiamo scelto per questa edizione, uno scatto di Paola Sireci intitolato “Solitudine”, che vuole sottolineare la dimensione solitaria provocata dai social. Su un palcoscenico di così smisurata visibilità non potevano non salire gli artisti, non tanto per mostrare la loro performance, quanto per promuoverla. Ma il palcoscenico dei social è una (ir)realtà in continua trasformazione e il successo non è dato dagli applausi ricevuti ma dai like e dai follower. E se le reactions non arrivano ecco che gli artisti vivono una situazione di disagio e frustrazione. L’impegno che si dedica alla creazione dei loro spettacoli è lo stesso, se non maggiore, per la creazione di contenuti social. E allora ecco che cantanti postano i loro momenti di vita quotidiana nelle storie, artisti che si rivolgono a social media manager e influencer che cavalcano il trend del momento. Quello sui social è un lavoro in più che gli artisti svolgono, un sovraccarico che può portare al burnout, a un esaurimento generato dall’ansia e dal continuo rincorrere e produrre per i social.
Alessia Pina Alimonti
Dai poeti maledetti alle popstar: quando la fama rende schiavi e depressi
di Paola Sireci
Vincent Van Gogh, Charles Baudelaire, Edgar Allan Poe, Frida Khalo, Francis Bacon. Sono solo alcune delle grandi menti che ci hanno regalato, nel corso della storia, tra le migliori opere d’arte di cui ancora oggi facciamo esperienza, frutto di un’esistenza tanto ricca quanto definita da drammi esistenziali, follia, depressione, tentati suicidi e incomprensione derivata da una società troppo stretta per supportare i loro stati d’animo. Secoli dopo, seppur con manifestazioni differenti a tratti meno drammatiche, ritroviamo gli artisti moderni fare i conti con una realtà virtuale tanto feconda dal punto di vista professionale, quanto arida e logorante dal punto di vista umano ed emotivo, disagio che specialisti del settore digitale definiscono, appunto, digital burnout o esaurimento da social. Ma di cosa si tratta nello specifico e quali sono le conseguenze che apporta nella vita privata e professionale di chi ne è colpito?
Lo scorso gennaio la popstar statunitense Chelsea Cutler ha confessato apertamente ai suoi follower la difficoltà di adattarsi all’evoluzione dell’industria musicale e dei social media, campi spesso interconnessi in un meccanismo sinergico in cui la vendita è conseguente alla promozione mediatica. C’è un’espressione interessante nelle parole pronunciate da Chelsea Cutler, ossia “trasformare la vita quotidiana in contenuti”, non rilevante in una prima lettura ma di grande valore se si pensa a questa dinamica nella vita di ognuno di noi: trasformare ogni singolo istante in materiale da rendere di pubblico dominio per milioni di utenti, persone nascoste dietro uno schermo, che ne fanno oggetto di discussione, apprezzamento ma anche critica e aggressione. Questa dinamica, riconosciuta spesso come disagio, prima di diventare tale è frutto di un’ossessione per i social media, in un primo momento utilizzati per promuovere l’immagine del profilo che vuole fare marketing di un determinato prodotto, ma che col tempo diventa il solo e unico canale attraverso il quale è possibile raggiungere l’obiettivo di vendita. Una consapevolezza trasformatasi in abitudine anche a seguito della pandemia che ha costretto migliaia di artisti a utilizzare il proprio profilo social per promuovere la propria attività, "confondendo pericolosamente la sfera personale privata e l'immagine pubblica" .
Responsabile di tale dinamica anche l’assenza di una comunicazione istituzionale a favore di un settore, come quello dello spettacolo dal vivo, che ha vissuto gli ultimi due anni più bui ai margini del mondo del lavoro. Ed è lì che si insedia il fenomeno del digital burnout: l’impossibilità di distaccare la vita privata da quella lavorativa, vivendo quotidianamente con l’ansia di non poter raggiungere i risultati ottenuti o di deludere le aspettative dei propri follower. Cosa può portare il fallimento illusorio di questi obiettivi? All’insoddisfazione, che può trasformarsi in depressione o esaurimento e che può sfociare nel suicidio. È il caso dell’influencer francese Mavachou che lo scorso 22 dicembre si è suicidata a seguito dei continui insulti e accuse esplosi dopo la separazione dal marito Adrien con cui condivideva fette della loro vita privata inclusi i quattro figli, oppure il caso di cronaca che ha visto protagonista la giovane Tiziana Cantone, suicidarsi nel 2016 a seguito della diffusione di un video privato da parte del fidanzato, gesto che ha scatenato la cattiveria del Web.
Ciò che vediamo nei feed di attori, cantanti, influencer e artisti in generale è davvero la vita che hanno scelto di mostrare ai loro follower e può questo disagio essere considerato l’occasione per mettere dei limiti e definire nuovamente quelle professioni nate e cresciute sui social media ed esplose con la pandemia? Al contrario degli artisti dell’800 per i quali la sofferenza interiore, che deteriorava lentamente la loro esistenza, rendendoli schiavi di una società che non li rispecchiava, era il motore della loro prolifica produzione artistica, gli artisti del nuovo secolo fanno fatica a convivere con lo stress e il malessere derivante dalla fusione vita privata/lavoro. Marshall McLuhan, padre della teoria della comunicazione, diceva che “il medium è uno strumento atto a trasferire contenuti” e che “il medium è il messaggio”: se ci affidiamo a queste semplici e chiare affermazioni, è giusto considerare i mezzi di comunicazione anche degli strumenti attraverso i quali è possibile promuovere un prodotto o finalizzare una vendita ma, se in esso, il messaggio passa in secondo piano in quanto ciò che ha la precedenza è lo strumento stesso e le sue dinamiche, è possibile assistere non solo alla perdita del suo valore, quanto a una depersonificazione del mezzo stesso e dei suoi utenti, non esseri umani ma semplici profili che interagiscono meccanicamente con finalità ben precise.
La storia di Jason Pollack, il social media manager delle popstar
Il podcast di Marzia Baldari
Alla scoperta di realtà poco conosciute. Analisi dell'immediato presente. Curiosando nel tempo libero.
Fatti, e non, che ci piace sapere.
La maternità nel 2022: il lessico e i dilemmi etici
di Teresa Giannini
Il 21 aprile scorso, è stata approvata la proposta di legge presentata da Giorgia Meloni per Fratelli d’Italia, sull’universalità della pena per il reato di maternità surrogata. La Commissione Giustizia della Camera ha scelto di adottare il documento come testo base per i futuri emendamenti.
Una decisione che non introduce alcuna idea rivoluzionaria in sé, poiché si limita ad assumere una «Modifica all'articolo 12 della legge 19 febbraio 2004, n. 40, in materia di perseguibilità del reato di surrogazione di maternità». Tale rettifica sussiste nell’aggiunta di un periodo di chiusura all’articolo originario: «Le pene stabilite dal presente comma si applicano anche se il fatto è commesso all’estero». Ciò sancirebbe l’impossibilità per un cittadino italiano di ricorrere a questo genere di procreazione assistita anche in un Paese straniero, dove non comporterebbe reato (pena la reclusione fino a 2 anni e il pagamento di una multa fino a 1mln di euro).
L’intento di Fratelli d’Italia è scoraggiare il cosiddetto “turismo procreativo”, come si legge nel testo sottoposto alla Camera. Il Movimento 5 Stelle e il PD si sono espressi con una votazione sfavorevole, mentre la destra (eccetto qualche voce solitaria fuori dal coro) è rimasta compatta sul sì.
E in Italia si torna a discutere sul significato di genitorialità e sul diritto alla famiglia, prima ancora che sul diritto internazionale: ambito in cui la proposta (sì formulata) di FdI ha sicuramente maggiori ricadute.
Uno dei campi su cui le diverse posizioni ideologiche preferiscono sfidarsi è il linguaggio. Utero in affitto e surrogazione, infatti, fanno capo a una terminologia che scredita il ruolo della gestante, confinandolo al solo prestito di una parte del proprio corpo (mentre la gravidanza coinvolge la donna nella sua interezza e implica trasformazioni tali che parlare di affitto diventa quantomeno riduttivo); tuttavia, pur adottando la locuzione gestazione per altri, le modalità con cui avvengono il concepimento, la nascita e la conseguente unione del bambino al nucleo familiare, restano invariate e possono essere discutibili: chi è il genitore? Che peso ha la gestazione nella definizione ideale e giuridica della maternità? È giusto separare un bambino appena nato dalla donna che lo ha partorito? L’industria della surrogazione non porta a credere che esistano geni migliori di altri e che, avendone la possibilità economica, sia giusto assicurarli al proprio figlio?
Ricordiamo che nell’ambito della procreazione assistita, si parla di maternità surrogata tradizionale e gestazionale. Nel primo caso avviene “l'inseminazione naturale o artificiale della madre surrogata” la quale fornisce l'ovulo - e con esso, parte del proprio corredo genetico - che darà origine all'embrione, mentre gli spermatozoi provengono dal genitore designato o da un donatore; nel secondo caso, invece, “si utilizzano i gameti maschili e femminili degli aspiranti genitori/donatori, per effettuare la cosiddetta fecondazione in vitro” e la madre surrogata porterà avanti solamente la gravidanza, senza pertanto contribuire al DNA del nascituro.
Ciò detto, va comunque sottolineato che l’Italia ha proibito già dal 2004 il ricorso alla surrogazione e che in qualche modo, quindi, il popolo si è già espresso sulla ragionevolezza dei vari pareri.
Sport e omosessualità: la cosa sorprendente è che sia ancora sorprendente
di Alessia Pina Alimonti
Il mondo dello sport spesso è contraddittorio. Se da un lato si propone come spazio inclusivo in cui fare gruppo, un esempio per tutti gli sport di squadra, dall’altro, quando si parla di omosessualità, l’inclusività diventa il suo opposto: frammentarietà, divisione. A farne le spese sono gli atleti. Molti sportivi omosessuali hanno tenuto nascosto il loro orientamento sessuale e quando hanno fatto coming out hanno generato polemiche e reazioni contrastanti. Siamo, quindi, di fronte a una realtà che ha paura dell’altro perché lo ritiene, erroneamente, diverso.
A combattere questa omofobia sono stati due calciatori in modo particolare, che hanno fatto sentire la loro voce e hanno lanciato un messaggio di vera inclusività. Megan Rapinoe e Josh Cavallo.
Vincitrice nel 2019 del Mondiale di calcio con la Nazionale statunitense, del Pallone d’oro e della Scarpa d’oro del Mondiale, Megan Rapinoe nel 2012 ha fatto coming out e ufficializzato la sua storia d'amore con la giocatrice di basket Sue Bird. Per il suo coming out, ha raccontato quanto sia stata determinante la vicinanza della sorella Rachael: «Quando le ho detto che ero gay, lei ha risposto con calma: «Oh, anch’io». Era quasi impossibile sorprenderci a vicenda, naturalmente la mia gemella era gay, ma ero stata presa alla sprovvista dal fatto che non me l’avesse confessato prima». La calciatrice ha sempre lottato per la difesa dei diritti civili e delle donne, nello specifico, sul tema dell’equal pay.
Josh Cavallo è un calciatore dell'Adelaide United una squadra della A-League australiana. Lo scorso ottobre il giocatore ha ammesso di nascondere la sua omosessualità da oltre sei anni dichiarandosi sui social. Nel suo discorso ha fatto notare come il calcio e l’omosessualità spesso sono in contrasto, spiegando: «Crescere essendo gay e giocare a calcio erano solo due mondi che non si erano mai incrociati prima. Ho vissuto la mia vita presumendo che questo fosse un argomento di cui non si sarebbe mai parlato. Fare coming out pubblicamente potrebbe avere un impatto negativo su una carriera. Come calciatore gay, so che ci sono altri giocatori che vivono in silenzio». Cavallo conclude dicendo: «Voglio aiutare a cambiare questo, a dimostrare che tutti sono i benvenuti nel gioco del calcio e meritano il diritto di essere sé stessi. Posso mostrare agli altri che si identificano come LGBTQ che sono i benvenuti nel mondo del calcio».
Le reazioni a questa vicenda sono state molteplici e tutte positive. Calciatori e club hanno elogiato il coraggio di Josh Cavallo che ha commentato: «Voglio inviare un messaggio al mondo intero per dimostrare che non importa chi sei, in cosa credi o da quale cultura o background vieni. Tutti sono accettati nel calcio, perché questo dovrebbe essere basato sul tuo talento, non su come appari o ciò in cui credi. Siamo nel 2021 ed è ora di cambiare le cose nel calcio».
Questa dichiarazione riassume al meglio la situazione attuale e il ruolo dello sport nella società. Parlare di omosessualità e diritti LGBTQ deve essere un discorso libero, senza paure, preoccupazioni. Argomenti sì delicati e impegnativi e quindi discuterne misurando le parole, ma si parla di diritti civili. Se la notizia del coming out di un calciatore crea un certo tipo di scalpore o comunque una mole di reazioni, vuol dire che forse non abbiamo tanta familiarità con il mondo LGBTQ. Il coming out di una persona dovrebbe essere un’azione comune e non dovrebbe stupirci. Se ci stupiamo, vuol dire che riteniamo l’omosessualità una particolarità, una cosa strana, ma l’omosessualità non è una stranezza, è una cosa normalissima. Ed ecco allora l’appello di Josh Cavallo sulla necessità di cambiare le cose e di farlo nel mondo dello sport. Perché è vero che lo sport e il calcio esteriormente comunicano un’idea di virilità, tossica tra l’altro, ma interiormente, lo sport è inclusione (e di nuovo le parole di Cavallo «Tutti sono accettati nel calcio»). Per cui la parte bella dello sport, quella fatta di inclusione, solidarietà e sana competitività deve eliminare quella parte negativa fatta di omofobia, odio e violenza. Siamo sulla giusta strada ma il cammino è ancora lungo. Josh Cavallo ha fatto un passo in avanti, ora tocca a noi fare altri passi verso il non considerare diverso o strano qualcosa di normalissimo.