Dalla carta stampata al digitale: informazione nelle mani di chi?
Il panorama giornalistico odierno può essere diviso in due macrocategorie: informazione sul web e informazione cartacea. Non sono due mondi separati: accade, infatti, che ciò che troviamo sul giornale cartaceo lo possiamo leggere anche sul sito della testata, oppure che la pagina web sia un’estensione o contenuto in più rispetto al giornale o viceversa. Ciò che differenzia maggiormente il digitale dal cartaceo è la quantità.
Un sito di informazione, infatti, è sempre in aggiornamento e nell’arco della giornata può pubblicare decine, se non centinaia di notizie. Per un periodico stampato, invece, c’è una più ristretta selezione di notizie che sono rinnovate quotidianamente o mensilmente, a seconda della cadenza. Ne consegue che un giornalismo volto alla quantità difetta di qualità. Nel grande flusso dei giornali digitali, la notizia emerge non tanto per valore informativo e culturale, quanto per il suo carattere di intrattenimento, poiché riesce ad attrarre e a incuriosire il lettore, vedi i fenomeni di clickbaiting.
All’opposto si trova il cartaceo, modello di giornalismo selezionato e accurato e quindi più affidabile. Nonostante la crisi della carta stampata, riviste e magazine resistono alle difficoltà, anzi aumentano i loro lettori proprio perché si propongono come elaborati con un progetto e una particolare identità, frutto di un lavoro che si può definire artigianale, offrendo al lettore un prodotto originale e di qualità superiore.
La divisione web/cartaceo, però, non si può ridurre a una mera equazione dove web=scarsa qualità e cartaceo=alta qualità. Come spesso accade nelle distinzioni, i confini non sono sempre netti e non si possono considerare i due ambiti come compartimenti stagni. Nel mezzo c’è il lettore. Un lettore che ha bisogno degli strumenti giusti per non annegare nel mare magnum dell’informazione digitale, un lettore che non dimentica la validità e il pregio del cartaceo.
Alessia Pina Alimonti
Che fine ha fatto il giornalismo?
di Paola Sireci
Cosa vuol dire il detto inglese “Elephant in the room”? Oggi partiamo da un’immagine creata ad hoc da Teresa Giannini, architetto, redattrice curatrice e ideatrice della veste grafica di Stay. che con un tocco di mouse e sguardo critico, è riuscita a rappresentare uno dei fenomeni che sta colpendo la società moderna, specie in questi ultimi due anni di pandemia, ovvero la crisi dell’informazione. In un’epoca in cui immagini e parole viaggiano parallelamente nonostante queste ultime spesso perdano il loro valore lasciando maggiore rilevanza al contorno, alle immagini per esempio, quanto è importante sceglierle accuratamente per creare un contenuto di qualità? Come un uomo che legge attentamente un talk show – letteralmente “lo show delle parole” – anche noi siamo sommersi quotidianamente da una quantità di notizie poco diversificate e, a tratti, superflue e superficiali con due grandi limiti che le accomunano: mancanza di attendibilità e di deontologia e competenza giornalistica. L’elefante nella stanza, quindi – per riprendere il famoso detto inglese – rappresenta per i lettori la verità “nascosta” mentre, per i divulgatori dell’informazione, delle news – i giornalisti – il giusto modo di raccontare, approfondire e analizzare quella stessa verità.
Oggetto di questa grande crisi che sta coinvolgendo fruitori e produttori delle notizie è il primo rapporto OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) sulla comunicazione pubblica, presentato in collaborazione con il Dipartimento per l’Informazione e l’editoria della Presidenza del Consiglio dei Ministri, da cui emerge un dato significativo: solo il 35% dei cittadini si fida dei social media e il 46% si fida delle notizie che sceglie di consultare. Meno della metà della popolazione ripone fiducia nell’informazione che gli viene proposta malgrado oggigiorno essa sia alla portata di tutti, tanto che i cittadini stessi sono fonte di informazione grazie alla fruizione digitale che rende il passaggio di contenuti informativi semplice e veloce. Come garantire, dunque, un’informazione di qualità in un mondo in cui gli influencer diventano promotori e commentatori delle notizie e in cui, scrivendo una parola chiave su Internet, lo schermo viene inondato di testate che parlano di quell’argomento? Ma soprattutto, perché il 54% della popolazione non è soddisfatto delle notizie che arrivano direttamente?
Lo scopo di ogni apparato di informazione è quello di fornire un resoconto degli eventi significativi e interessanti, come suggerisce la sociologa statunitense Gaye Tuchman che ha condotto uno studio sulla costruzione delle notizie direttamente nelle redazioni giornalistiche con lo scopo di osservare come i giornalisti lavorano, in particolare studiando la relazione tra ciò che pensano e il modo in cui lo traducono in notizia. Valori su cui i giornalisti fondano il loro lavoro sono: la notiziabilità, intesa come il processo di selezione degli eventi che contribuiscono a rendere un evento notizia (concetto ampiamente approfondito dal sociologo Mauro Wolf) e la “capacità di intrattenimento” – espressione dei sociologi Golden ed Elliott – finalizzata a mantenere desto l’interesse del lettore. Nella definizione del processo di informazione ci sono i giornalisti, da un lato, e le istituzioni dall’altro. Dunque, il fulcro di questa attività: una cooperazione sinergica in cui scegliere di informare è prioritario rispetto alla necessità di comunicare, azioni spesso confuse e sostituibili l’una con l’altra. Accrescere la cultura e la conoscenza del lettore è il compito di ogni giornalista, che lo può fare con le forme di comunicazione più disparate, intese come le modalità con cui rendere un contenuto condivisibile e condiviso.
Il giornalismo di cui si parla oggi, purtroppo, non rispetta questi valori, questa deontologia, ma si fonda sulla libera concorrenza di notizie, che siano di interesse pubblico e che mirino al mero intrattenimento, al “talk show” che legge il nostro uomo in copertina, non curandosi dell’attendibilità delle fonti, dei valori notizia alla base delle teorie dell’informazione e del linguaggio espresso nella costruzione di un articolo. Obiettivo fondamentale delle testate, specie quelle digitali, è ottenere più visualizzazioni possibili, più click. Il giornalismo è diventato un prodotto da vendere, così come le modalità per diventare giornalista, basate su un giro pecuniario che arricchisce i formatori, le scuole di giornalismo o le redazioni che offrono dei tirocini infiniti e inconcludenti per l’ottenimento del tesserino. Il risultato di questo business è una concorrenza smodata di testate che gareggiano per il primo posto nelle visualizzazioni, offrendo una quantità eccessiva di notizie, talvolta inaccurate, che ostacolano la definizione di un’idea propria per la difficoltà di fonti attendibili, meglio definita come infodemia.
In questa gara alla notizia più cliccata, il ruolo decisivo appartiene al lettore, potenzialmente e idealmente incline a un’informazione non passiva, ma che gli permetta di alzare la testa da un cumulo di notizie qualunquiste e scorgere quell’elefante tanto grande quanto, paradossalmente, ancora troppo invisibile agli occhi di tutti.
Due chiacchiere con Anna Frabotta di Frab’s
il podcast di Marzia Baldari
Alla scoperta di realtà poco conosciute. Analisi dell'immediato presente. Curiosando nel tempo libero.
Fatti, e non, che ci piace sapere.
La Spagna, prima in Europa, concede 3 giorni di permesso per il ciclo mestruale
di Paola Martinelli
E’ da anni che in tutta Europa si susseguono le richieste di intervento, da parte dello Stato, per quelli che vengono definiti i diritti riproduttivi, ovvero tutti quelli legati alla sfera intima e sessuale femminile.
La Spagna è ad oggi il primo stato europeo che ha varato un disegno di legge a favore di tali diritti, nella fattispecie “Legge Organica per la Tutela dei Diritti Sessuali e Riproduttivi e la Garanzia dell’Interruzione Volontaria della Gravidanza”, che introduce novità sia in materia di interruzione di gravidanza che di prevenzione sessuale e che fa discutere perché include quello che in molti altri stati europei è visto come una semplice utopia: il congedo mestruale. A darne notizia è la ministra delle Pari Opportunità, Irene Montero, che in una conferenza stampa al termine di alcuni giorni di dibattito afferma:
«È finito il tempo di andare a lavoro imbottite di pillole e dover nascondere che nei giorni del ciclo patiamo un dolore che ci impedisce di lavorare. Siamo il primo Paese d’Europa a regolamentare permessi speciali temporanei per mestruazioni dolorose pagati interamente dallo Stato».
In Europa, infatti, non esiste nessuna legge a riguardo; in Italia, ad esempio, è stata proposta e discussa nel 2016 ma mai approvata.
Il paese iberico di fatto risulta il primo ad aver concesso 3 giorni di congedo alle donne durante il periodo del ciclo mestruale. La legge prevede che questo venga riconosciuto in seguito ad un certificato medico che attesti la reale indisposizione al lavoro.
Questa proposta di legge ha scosso gli animi in tutta Europa, anche in Italia dove il divario di genere viene vissuto ancora in modo molto forte e l’essere donna è visto come un handicap nel mondo del lavoro. Non a caso in una recente intervista Elisabetta Franchi ha dichiarato che un imprenditore preferisce, a parità di meriti, assumere un giovane uomo anziché una donna per non rischiare di perdere la risorsa a causa della maternità. Questo sembra essere un pensiero diffuso nel mondo dell’impresa, tuttavia non è eticamente corretto far pesare alle donne il desiderio di avere, accanto a quella lavorativa, anche una soddisfacente vita privata (ed è utile ricordare che i congedi di maternità sono pagati per l’80% dalle detrazioni mensili a carico dello stipendio dei contribuenti).
La verità è che in Italia, al di là di leggi per garantire i diritti riproduttivi, manca una vera e propria educazione al rispetto del corpo femminile che ha le proprie esigenze: il ciclo mestruale non è una scelta ma una condizione spesso invalidante che le donne subiscono.
I 10 nanogrammi che non fanno più la differenza
di Alessia Pina Alimonti
In principio era un livello di testosterone di 10 nanogrammi per litro, ora prevale la norma dell’inclusione a meno che non esista un vantaggio sproporzionato. È lo sviluppo e il rinnovamento dei criteri del Comitato Olimpico Internazionale riguardo la presenza di atleti transgender ai Giochi. La tematica della transessualità nello sport, infatti, genera polemiche, arrivando all’esclusione degli atleti. Da una parte c’è chi, sostenendo che le atlete transessuali siano più avvantaggiate, non accetta la loro partecipazione alle gare; dall’altro lato ci sono le dirette interessate, le atlete. Una tra tutte è Laurel Hubbard, prima atleta apertamente transgender a partecipare alle Olimpiadi di Tokyo 2020 nella categoria femminile. Dopo la sua gara olimpica ha affermato: «Non sono inconsapevole di quanto faccia discutere la mia presenza qui, ma voglio ringraziare il CIO. Il suo sì spiega al mondo cosa è l'olimpismo: inclusione. Perché lo sport è per tutti». La sollevatrice ha poi continuato chiedendo «di guardare alla mia storia e al mio lungo percorso di transizione da un punto di vista più ampio».
La Hubbard è stata duramente criticata. Secondo l’atleta belga Anna Van Bellinghen la partecipazione della Hubbard rappresenta un «brutto scherzo». La sollevatrice belga ha poi aggiunto: «Dobbiamo riordinare le regole: nulla contro la partecipazione dei trans, ma non va dato loro un vantaggio così forte».
Quali sono le regole? Le prime norme per la partecipazione degli atleti transessuali nelle competizioni olimpiche risalgono al 2003. Queste stabilivano che gli atleti dovevano sottoporsi ad un intervento chirurgico e dovevano iniziare almeno due anni prima dell'evento sportivo una terapia ormonale per la transizione di genere. Una modifica delle regole si ha nel 2015, quando si decreta che l'atleta può gareggiare nella categoria femminile con un livello di testosterone al di sotto dei 10 nanogrammi per litro, con un valore superiore, invece, può partecipare gareggiando in quella maschile.
Questa soglia, però, si rivela nociva. Per rispettare quel livello nel caso in cui il fisico ne producesse di più, infatti, le atlete dovrebbero prendere dei medicinali, ma anche seguendo una terapia sotto controllo medico, correggere i valori naturali di ormoni presenti nel sangue resterebbe pericoloso per la loro salute. Inoltre, questa indicazione esclude anche atlete non transessuali. È il caso di Caster Semenya che soffre di iperandrogenismo, ovvero una produzione eccessiva di ormoni maschili come il testosterone.
Le regole ora sono cambiate. Il CIO si dimostra più inclusivo e intraprende azioni per promuovere l'uguaglianza di genere: in un documento del 16 novembre 2021, ha stilato un quadro che riconosce «sia la necessità di garantire che tutti, indipendentemente dalla loro identità di genere o dalle variazioni di sesso, possano praticare lo sport in un ambiente sicuro e privo di molestie, che riconosca e rispetti le loro esigenze e identità, sia l'interesse di tutti a partecipare a competizioni eque in cui nessun partecipante abbia un vantaggio ingiusto e sproporzionato rispetto agli altri». La novità sostanziale: non saranno più necessari test del testosterone e si vieta che gli atleti debbano «sottoporsi a procedure o trattamenti medici non necessari» per poter partecipare a una competizione agonistica.
Dalle prossime Olimpiadi, 10 nanogrammi di testosterone non faranno più la differenza e non impediranno alle atlete transgender di gareggiare. I prossimi giochi rappresenteranno davvero lo spirito olimpico e il vero valore dello sport: l’inclusione.