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Il vintage è ovunque.
Come l’abito hippy acquistato a Porta Portese, il frigorifero bombato anni ’50, la musica degli Arcade Fire, gli spettacoli di burlesque, i baffi alla Gangs of New York, il boombox in spalla, le tute oversize sgargianti dell’Adidas.
Nessuno di questi oggetti è di natura artistica, ma cose assolutamente normali che dovrebbero perdere il loro valore nel tempo. Dall’armadio vengono relegati in soffitta, poi venduti all’antiquario sotto casa o al mercatino delle pulci. Oggetti che si deprezzano e cadono nel dimenticatoio.
Ma se dopo almeno un paio di decenni vengono salvati dalla decadenza riacquistano magicamente valore, proprio per la loro unicità e rarità. Qui l’oggetto diventa vintage, come il vino d’annata: più passa il tempo e più aumenta il suo valore.
È curioso che questa pratica del vintage sia così diffusa in una società ipertecnologica caratterizzata dall’innovazione e dalla continua ricerca del nuovo. Questo perché il vintage, nonostante sia legato ad estetiche e simboli del passato, è vissuto come qualcosa di estremamente attuale e alla moda.
Il vintage fa figo.
Se ci pensate, il vintage ha una natura paradossale e questo lo inserisce in uno straordinario e complesso fenomeno social-e degno di essere approfondito.
Ora vi spiego.
Vintage è qualsiasi oggetto, contenuto, idea, attitudine, abbigliamento che ci fa evadere dalla realtà. E questo avviene, in particolare, quando la società si trova in un momento di crisi. E la nostra, quella occidentale, lo è da vent’anni: dal punto di vista economico, culturale e sociale.
Vintage è dunque fuga all’indietro, soprattutto rispetto al dovere di essere sempre connessi mescolato alla scarsa fiducia del futuro e del presente. Proprio il presente è vissuto come autosufficiente e indipendente dal passato; un presente che ha il sapore del non tempo, dell’atemporalità, della velocità, dell’immediatezza.
Il passato viene invece riprodotto e mitizzato dai media contemporanei come nostalgico.
Il passato è nostalgia.
Il vintage è nostalgia.
Vintage significa oggetto del desiderio.
Significa esistenza e identità.
Significa mood.
Anche il fatto che gli smartphone permettano di scattare fotografie e dei social di poterle condividere e rivedere a distanza di tempo, ci racconta che la società sente il bisogno di fissare la propria esistenza perché creare album di ricordi è rassicurante, stabilizza la condivisione della memoria e crea legami.
Insomma il passato fa star bene perché è documentabile e concreto, e il presente è invece inafferrabile e frustante per questo.
Il vintage diventa quindi esperienza del passato. Anzi, atmosfera del passato che viene però riattualizzata.
Ad esempio,
Vesto come Audrey Hepburn non tanto perché rimpiango la sua epoca, gli anni ’50 e ‘60, ma perché mi ci voglio proiettare. Perché desidero indossare pantaloni a sigaretta, camicetta bianca, ballerine e avere il taglio di capelli alla pixie cut per ciò che rappresentano: stile raffinato, bon ton, eleganza.
E in questo io mi ci voglio identificare e farmi riconoscere. Però magari ci metto anche una cinta Gucci dell’ultima collezione e mi faccio un video reel da postare su Tiktok.
Questo perché il passato viene riattivato e reinventato e non semplicemente imitato. È revival.
Passato che è rivissuto, contemporaneizzato (chi lo sa se si può dire così).
Comunque, il vintage si colloca nell’accezione di stile di vita.
Ti faccio un altro esempio.
Prendiamo il film The Artist, il film del 2011 di Michel Hazanavicius: l’intera visione del film non è solo quella di un film anni ’20 in bianco e nero, ma la visione di un film negli anni ’20. E quindi completamente muto. Bellissimo.
L’aspetto interessante è che queste pratiche sociali, perché tali sono, sono diffuse e attuate dai giovani e giovanissimi. Il vissuto che viene rievocato non è individuale, perché è un passato che non si è mai vissuto e che, però, può essere riattualizzato e sentito come vissuto.
Ti ho rimbambito, lo so.
Quello che posso dire è che è grazie alla cultura digitale che il vintage si fa memoria.
Ecco il cortocircuito, il paradosso. Il vintage, che è passato, ha senso per l’individuo perché condiviso nel presente. L’individuo ha il bisogno di sentirsi fuori tempo, di sottrarsi al tempo che vive pur rimanendo ancorato all’ambiente tecnologico del presente. Vintage non è quindi un recupero del passato con la totale negazione del presente, ma una negazione di entrambi i tempi per trovare il proprio sé.
Per ritrovarsi.
Alla prossima CULTURE NEXT!