CONTROCULTURA. Il fenomeno Måneskin, ovvero come il conformismo sta uccidendo (anche) il rock and roll.
Approfondimenti e riflessioni su attualità, costume e società, a cura di Amina Al Kodsi
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di Amina Al Kodsi
Il 20 gennaio uscirà Rush!, il nuovo album dei Måneskin, una delle giovani band più note nel panorama italiano ed internazionale.
La divertente recensione del terzo album della band capitolina scritta da David Browne per Rolling Stone ( potete leggerla qui) mi ha spinto ad una riflessione sul futuro del rock and roll ( o di ciò che viene spacciato per tale), per lo meno di quello mainstream.
Stando a quanto dice Brown i testi del nuovo album sarebbero un tripudio di allusioni a birra, droghe e sesso. Lo scimmiottamento di uno stile di vita da rockstar sfiorerebbe a tal punto il ridicolo, da far credere che sia fatto quasi volutamente.
Nel testo del brano “Feel” si parla addirittura di “cocaina sul tavolo”. Un riferimento che non può non strapparmi un sorriso visto l’episodio che vide coinvolto il leader della band durante la finale dell’Eurovision nel 2021. In quella circostanza, di fronte all’accusa, infondata, mossa da un giornalista di aver fatto uso di cocaina durante la messa in onda del programma, il ribelle Damiano decise autonomamente di sottoporsi il giorno successivo ad un test anti-droga che diede esito negativo.
Un gesto che non fu molto rock and roll. Più di quarant’anni fa Ozzy Osburne, il celebre leader dei Black Sabbath, mangiava pipistrelli sul palco e sniffava formiche di fronte a Nikki Sixx dei Mötley Crüe e non si è mai preoccupato di fornire giustificazioni a nessuno.
Ora, lungi dal voler affermare che lo status di rockstar sia necessariamente legato a comportamenti estremi, anche perché così facendo non si farebbe che perpetrare un altro stereotipo, credo che in parte il problema legato al fenomeno Måneskin sia certamente riconducibile ad una mancanza di autenticità. Lo stile di vita sfrenato e le presunte esperienze a cui fanno riferimento i quattro ragazzi sono chiaramente frutto di invenzione e a dimostrarlo c’è non solo l’episodio, noto a tutti, dell’Eurovision, ma anche il retaggio sociale dei quattro giovanissimi componenti della band.
La cosa che però desta maggiore perplessità, per quanto mi riguarda, non sono né i Måneskin in sé per sé, né il fatto che ci sia gente a cui piace la loro musica (anche se regalerei loro qualche disco dei Led Zeppelin). Non c’entra nulla neanche la tanto famigerata invidia che noi italiani saremmo soliti nutrire verso un nostro connazionale che ce l’ha fatta. Il reale problema è che ci sono tantissime persone realmente convinte che i Måneskin siano dei rockers che conducono uno stile di vita sfrenato e sopra le righe. Il fatto che, agli occhi di molti, i Måneskin risultino credibili come rockstar è la dimostrazione più lampante di quanto il rock and roll, almeno quello mainstream, sia, se non morto, agonizzante.
Il rock ’n’ roll, quello vero, smantellò la società patriarcale e conformista post bellica degli anni 50. Musicisti come Elvis insieme ad artisti e a scrittori come Jack Kerouac e Allen Ginsberg, esponenti iconici della beat generation, posero le basi per quella che, ad oggi , è stata la più grande rivoluzione culturale e sociale nella storia moderna occidentale, parliamo di quella degli anni 60 naturalmente.
Da allora il rock, declinandosi in diversi sottogeneri, non ha praticamente mai smesso di scuotere le coscienze dei benpensanti generando quello che il sociologo Stanley Cohen, facendo riferimento alle due sottoculture giovanili dei mods e dei rockers inglesi dei primi anni‘60, definì “moral panic”. Un termine con il quale in sociologia si fa riferimento ad un panico collettivo scatenato da una situazione ritenuta potenzialmente pericolosa.
Il rock ’n’ roll, in quanto promotore di uno stile di vita promiscuo e trasgressivo, è stato percepito per anni come una vera e propria minaccia all’identità culturale della medio borghesia. E’ stato portatore di ribellione e di avanguardia, di tutta una serie di nuovi valori che si potrebbero sintetizzare con una delle foto più famose della storia della musica, quella scattata dal fotografo Jim Marshall che ritrae Johnny Cash durante il concerto nel carcere di San Quentin del 1969. Uno scatto che incarna in pieno quello che per anni è stato lo spirito del rock and roll: semplicemente un dito medio alzato contro tutto e tutti.
Oggigiorno, dal momento che molti taboo, specialmente quelli legati alla sessualità, sono stati sdoganati, continuare ad assumere atteggiamenti stereotipati che ormai appartengono ad un’era passata come fanno i Måneskin può risultare non solo anacronistico, ma anche ridicolo.
É pur vero che, nel desolante panorama musicale attuale dominato dalla trap e dalla musica commerciale, questo goffo “rock 'n’ roll” pur di emergere le deve tentare tutte. Le provocazioni però, dalle foto dei quattro in reggicalze a quelle del tatuaggio raffigurante il leader della band nelle vesti di Gesù, avvengono sempre sotto la luce perfetta dei riflettori e, soprattutto, non superano mai realmente certi limiti. Non hanno nulla di realmente sovversivo, ma hanno come matrice un conformismo che ha ormai contagiato ogni cosa.
Persino l’impegno civile e sociale risente delle scelte di marketing di produttori e discografici. Così queste impavide rockstars sono sempre pronte a sostenere le battaglie civili e sociali più “cool” del momento con la grinta e la tenacia del più temibile rivoluzionario da salotto.
Alla fine però il risultato non convince e, più che suscitare quello che Cohen definiva moral panic, questa nuova ondata di rock’ n’ roll viene inglobata all’interno di una società sempre più perbenista. Una società in cui anche il rock and roll può essere addomesticato e diventare politically correct. Un rock innocuo, patinato, studiato a tavolino dai manager dell’industria musicale. Un rock che vorrebbe riportare in auge, a tutti i costi, il suo glorioso passato, ma che così facendo si trasforma nella triste parodia di sé stesso.