CONTROCULTURA. Che fine hanno fatto le sottoculture giovanili?
Approfondimenti e riflessioni su attualità, costume e società, a cura di Amina Al Kodsi
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La scorsa settimana passeggiavo per via del Corso, a Roma, alla ricerca di un regalo di compleanno. Come sempre mi accade quando passo da quelle parti, il mio sguardo si è posato nostalgicamente verso l’obelisco di Piazza del Popolo e le sue gradinate, teatro indiscusso della mia adolescenza. Dovete sapere infatti che ogni fine settimana, fra la fine degli anni 90 e i primi anni 2000, le gradinate dell’obelisco si riempivano di decine di ragazzi della scena alternativa romana, provenienti da ogni parte della città. Una mia amica ci chiamava la grande “macchia nera”. Ogni sabato la piazza capitolina si trasformava in un brulicante melting pot di controculture suburbane in cui dark, metallari, punk, hippies e rockettari di ogni sorta si incontravano per bere e e per raccontarsi. Tutti i fine settimana prendevamo possesso della zona, aggirandoci indisturbati e beffardi, fra gli sguardi della Roma bene che affollava i tavolini delle sale da te dei due storici locali che occupavano i lati opposti della piazza, Canova e Rosati. Ogni tanto c’era qualche rissa tra aspiranti maschi alpha, ma, a parte questo, grossi disordini non ce n’erano quasi mai. Io appartenevo al gruppo dei gotici: cipria bianchissima marca Stargazer, rossetto nero e collarino in pelle. Leggevamo Rimbaud e i poeti maledetti, i romanzi gotici e quelli vittoriani. Conoscevamo a memoria il testo di tutte le canzoni dei Joy Division e dei Bauhaus e amavamo Twin Peaks ed il cinema disturbante di David Lynch. Il nostro abbigliamento era rigorosamente nero (le uniche sfumature di colore ammesse erano il viola e il rosso scarlatto)e ricercatissimo: corsetti vittoriani, bustini in pizzo e larghe gonne drappeggiate. Ricordo ancora con quanto orgoglio sfoggiassi le mie new rock ai piedi e l’iconico zainetto a forma di bara, il vero must have per ogni ragazza dark che si rispettasse di quegli anni. L’abbigliamento, oltre che espressione della cultura dark, era indubbiamente anche un modo per non passare inosservati fra la folla. Ci divertivamo a sfidare lo sguardo dei passanti che ci fissavano sbigottiti, appellandoci nei modi più disparati. Le offese non ci scalfivano, anzi. Credo che ogni insulto, commento o risata soffocata avesse, al contrario, un effetto quasi inebriante su di noi. Rappresentavano una piccola vittoria, una celebrazione della nostra diversità e, soprattutto, un’affermazione della nostra traballante e incerta identità postpuberale. L’attenzione che il nostro aspetto suscitava negli altri rispondeva a quello spasmodico e disperato bisogno di essere “visti”, tipico dell’adolescenza. A distanza di anni la vista di quella piazza, un tempo punto di ritrovo della scena alternativa capitolina, ingombra di turisti e di passanti occasionali mi mette sempre un po’ di malinconia e mi spinge a domandarmi che fine abbiano fatto le sottoculture che spopolavano per le strade a cavallo fra gli anni 80 e 90.
La generazione “Z” e le sottoculture del XX Secolo.
Una dei principi fondanti del fenomeno delle sottoculture del XX secolo è indubbiamente il carattere divergente rispetto al pensiero e alla cultura dominante. Nel suo “Subculture: The Meaning of Style” il noto sociologo Dick Hebdige definisce la sottocultura una “sovversione della normalità”. Il fenomeno riunisce un ristretto gruppo di persone che, attraverso la ritualizzazione di un medesimo stile di vita, sviluppa un forte senso di appartenenza. In questo processo lo stile, per Hebdige, riveste un ruolo fondamentale. Nel capitolo “Style as intentional communication” il sociologo inglese analizza come esso, oltre a rappresentare un elemento coesivo per coloro che aderiscono ai valori di una determinata sottocultura, acquisisca un valore semantico diventando “segno”. Oggi il fenomeno ha assunto caratteristiche completamente diverse, a partire proprio dall’abbigliamento che ha completamento perso la funzione semantica cui faceva riferimento Hebdige. Gli adolescenti non sono più così facilmente “etichettabili” a livello visivo come lo erano un tempo, ecco perché è diventato così difficile incontrare per strada un giovane goth, anche per chi vive in una grande città. Per l’antropologo Ted Polhemus i giovani al giorno d’oggi, in fatto di abbigliamento, si muoverebbero in una realtà più ibrida e sceglierebbero il proprio look attingendo ad elementi di sottoculture diverse. Come in un grande “supermarket degli stili” i teenager indossano con disinvoltura il chiodo in pelle del metallaro, le Doc Martens del punk e i jeans a zampa dell’hippie. Le “sottoculture” contemporanee avrebbero dunque perso il proprio carattere estetico concentrandosi su quello valoriale attraverso la condivisione di idee e stili di vita. E’ di questo parere Tim Stock, professore di analisi delle tendenze e design thinking alla Parson School of Design, che in un’interessante intervista rilasciata a Vogue Italia nel 2022 passa in rassegna le principali famiglie di movimenti sottoculturali contemporanei: da quelli legati alla stregoneria e ai culti neo pagani, come le wicca, in cui la magia “assurge a strumento di rivendicazione femminista anti-patriarcato” ai movimenti legati al benessere e alla crescita personale, come per esempio quelli incentrati sull’utilizzo dell’astrologia come strumento di conoscenza e realizzazione individuale. Stock si sofferma poi sul curioso fenomeno che vede il formarsi di vere e proprie sottoculture attorno alle più svariate malattie mentali, sia vere che presunte: dall’ADHD al bipolarismo, fino a disturbi immaginari come l’“ossessione per la lettura”, l’iper-patologizzazione dei più svariati comportamenti umani porta alla formazione di una miriade di micro-comunità online” arrivando infine a quei movimenti che hanno come scopo “il rafforzamento dell’identità e dell’autostima”. Si veda a tal proposito il fenomeno Bosozoku, “la sottocultura nipponica che celebra la figura della teenager guerriera e fuorilegge”.
Will Social Media tear us apart (again)?
Tutte queste emergenti pseudo sottoculture hanno un’importante elemento che le accomuna, ovvero la presenza quasi esclusivamente online dei propri “adepti”. Il fatto che esse non siano nate “on the road” come tutte le sottoculture che le hanno precedute ne ha inevitabilmente condizionato il carattere, indebolendolo a mio avviso sotto molteplici aspetti. In primo luogo credo che la natura digitale delle moderne sottoculture abbia detonato ed addomesticato quel moto di ribellione, che è alla base di qualunque movimento sottoculturale, rendendo i suoi fruitori più passivi ed inclini alla morigeratezza verbale ed espressiva. La censura inquisitoria di Facebook e delle piattaforme online non sono di certo strumenti che favoriscono l’originalità e la libertà comunicativa. Occorre poi prendere in considerazione l’aspetto estremamente aleatorio, precario e frammentario dei fenomeni in questione che non hanno nulla da spartire con quello solido e durevole delle sottoculture del XX secolo. Come afferma brillantemente il critico musicale Alexis Petridis del Guardian
“Internet non genera movimenti di massa, legati insieme da un gusto condiviso nella musica, nella moda e dal possesso di capitale sottoculturale: genera movimenti brevi e microcosmici.”
La mancanza di capitale sottoculturale ha così trovato la sua deriva nella cultura pop e consumistica.
D’altra parte, siamo seri, cosa potranno avere mai in comune le community degli ossessionati dalla lettura in stile Dark Academia, quella dei malati immaginari, che, si auto diagnosticano l’autismo ed i più svariati disturbi comportamentali, con il movimento punk? Ben poco. Questo perché internet ha dei ritmi serratissimi. Non c’è più tempo per l’arricchimento del “capitale sottoculturale”, che risulta scarno, inconsistente, privo di forti elementi coesivi sul piano emotivo, come ad esempio la passione condivisa per uno stesso genere musicale, che possano garantire a queste nuove tendenze culturali un tempo di sopravvivenza abbastanza lungo. I giovani ( ma non solo loro purtroppo), sottoposti ad una iperstimolazione costante, si ritrovano a rimbalzare come schegge impazzite, passando dal desiderio di coltivare broccoli e di fare il pane fatto in casa ( cottage core community), a quello di abbracciare lo stile finto vintage delle VSCO girls sino a quello di diventare globetrotter a tempo pieno facendo il giro del mondo in autostop con dieci euro nel portafoglio.
I sociologi dei mass media la chiamano fluidità, ma non credo sia una dimensione in cui qualcuno possa realmente sentirsi a proprio agio. D’altra parte, come diversi indagini dimostrano, sono proprio gli stessi giovani ad avvertire l’avvento della tecnologia come una minaccia. E li capisco, non solo perché da brava Millenial ultratrentenne vivo tutt’oggi una vita adulta che ha il retrogusto amaro di un’eterna adolescenza ( o come direbbe Teresa Giannini nel suo bellissimo pezzo: “adultescenza”), ma anche perché con l’avvento degli smartphone, la pubblicità, attraverso i banner, i reels e le partnership sponsorizzate sui social, ha invaso in modo capillare lo spazio online in cui ci muoviamo. L’invadenza del marketing digitale ci ha trasformato in consumatori avidi e insaziabili, alla mercé di community e di influencer che ci vendono stili di vita idealizzati, preconfezionati ed artefatti, spesso dispendiosi, con il solo scopo di arricchire se stessi e le aziende che rappresentano. Non vorrei cadere nella solita retorica della demonizzazione dei social né tantomeno affermare che noi eravamo in qualche modo “migliori” rispetto ai giovani di oggi perché eravamo dark, punk o perché ascoltavamo musica migliore (anche se in realtà mi dispiace, ma quest’ultimo è un dato di fatto). Posso però affermare una cosa con assoluta certezza. Eravamo più liberi. Le sottoculture oggi sono diventate l’oggetto dello sciacallaggio di grandi aziende che, attingendo ad esse, le svuotano del proprio valore e le riducono a mere nicchie di marketing da studiare attraverso attente strategie di mercato. Ma in realtà, credo che questo non sia un problema che dovrebbe preoccupare solo i più giovani. E’ da tempo che ad essere sotto scacco non sono solo le sottoculture, ma anche la cultura dominante stessa, relegata troppo spesso ad una posizione subalterna rispetto alle esigenze dei colossi pubblicitari. Quand’è la cultura stessa a vacillare, come possono sopravvivere le sottoculture?