Controcultura. Binge Watching: perché siamo così ossessionati dalle serie televisive?
Controcultura è la rubrica di approfondimenti e riflessioni su attualità, costume e società. A cura di Amina Al Kodsi
Kill Your Television, Banksy
Stando ai dati rilasciati da Statista.it nel terzo trimestre del 2022 il numero di abbonati a Netflix in tutto il mondo si è aggirato intorno ai 223 milioni, mentre Disney Plus ha toccato quota 152 milioni. Cifre esorbitanti, che confermano l’incredibile successo raggiunto negli ultimi anni dalle piattaforme streaming. Piattaforme che stanno lentamente soppiantando i media tradizionali, garantendo rispetto ad essi un livello di interazione superiore a qualunque forma di intrattenimento precedente. La possibilità di fruire in qualunque momento e in qualunque luogo di ogni genere di contenuto audio visivo, dai film ai documentari, ha innescato un’ossessiva dipendenza verso l’intrattenimento on demand e in particolare verso le serie tv. Un fenomeno del quale siamo in un certo qual modo anche fieri. Basti pensare ai numerosi meme, presenti sul web, che celebrano la bellezza delle serate passate a casa sotto le coperte di fronte ad uno schermo acceso, dopo aver declinato gli inviti degli amici ad uscire. Ma com’è nato tutto? A dare probabilmente la spinta definitiva al fenomeno della dipendenza dalle serie televisive come lo conosciamo oggi, è stata la decisione di Netflix di produrre serie televisive originali a partire dal 2013, anno in cui venne distribuita la prima serie targata Netflix “House of Cards”. Per quanto mi riguarda, non sono una grande amante delle serie tv, nemmeno di quelle che vengono spacciate per bellissime e irrinunciabili. L’unica forma di intrattenimento visivo dalla quale mi sento coinvolta è il cinema che amo proprio per la sua struttura, più solida e stabile, rispetto al carattere frammentario delle serie tv. Sono però una persona curiosa e, cercando di non nutrire troppi pregiudizi, ho spesso provato a chiedere agli amanti dell’intrattenimento on demand il motivo della loro passione. In molti hanno lodato la possibilità di conoscere e di immergersi in realtà lontane e diverse da quelle che si è comunemente abituati a vivere. Un mio amico invece mi disse che non c’è cosa migliore di una serie televisiva, perché quest’ultima ti dà la possibilità di vedere una versione molto più lunga di un bellissimo film la cui trama, nel mondo del cinema, si risolverebbe in non più di due ore. Spesso poi dietro il successo di una serie c’è il passaparola. Si seguono così i consigli di conoscenti e amici, in parte per il rispetto che nutriamo verso di loro e in parte per evitare la FOMO (Fear of Missing Out), quella paura che ci spinge a fare ciò che fanno gli altri per non sentirci esclusi dal gruppo. Ma da dove scatta la dipendenza? Per capirlo credo sia importante partire proprio dal termine con il quale si denomina questo fenomeno, il binge watching. Un termine, “binge”, che significa letteralmente “abbuffata” e con il quale, non a caso, si indicano le dipendenze, come ad esempio quella dal cibo, il binge eating. Il riferimento culinario è, in questo caso, fra tutti il più calzante. Carlton Cuse, uno dei produttori di Lost, quella che potremmo considerare la serie tv per eccellenza, paragona il lavoro dei produttori televisivi a quello dei produttori di patatine in busta. Riferendosi a questi ultimi sostiene che “loro sanno come mettere all’interno le giuste sostanze chimiche che ti fanno venir voglia di mangiare un’altra patatina. Il nostro obiettivo è farvi venir voglia di guardare l’episodio successivo”. Gli episodi sono dunque strutturati e progettati in modo tale che, come le patatine in busta, uno tiri l’altro. Ma perché allora non farlo con il cinema? Sarebbe quanto meno difficile immaginare un’abbuffata di una serie di film di Godard o di Yorgos Lanthimos . Questo perché i film d’avanguardia e quelli d’autore richiedono un processo di metabolizzazione più elaborato, una lenta assimilazione di immagini e tematiche che ne renderebbe impossibile un’indigestione. Mentre il binge watching di serie televisive è possibile proprio perché (il più delle volte) il prodotto che viene consumato è più scadente, o, per usare di nuovo una metafora culinaria, più scarso in valori nutrizionali e più ricco di additivi chimici che ne facilitano l’assuefazione. Si potrebbe a questo punto dire dire che tanto più il prodotto è scadente tanto più è alto il rischio di abbuffata? Non credo sia esattamente così. E’ però innegabile che l’attenzione al valore artistico del prodotto proposto, nel caso delle serie TV, passi nettamente in secondo piano. Come affermato da Cuse, l’obiettivo principale dei produttori televisivi è quello di lusingare il piacere dei telespettatori rendendo gli episodi “appetitosi” per il pubblico. Parliamo quindi prevalentemente di un prodotto di marketing. La visione artistica di un regista, la sua poetica sono cose che non interessano a nessuno. E’ un po’ come avviene nei reality show, dove ciò che conta sono le storie e i personaggi e soprattutto le relazioni empatiche che il telespettatore crea con essi. In tal senso non c’è da stupirsi che le persone si identifichino con Jeffrey Dahmer, il serial killer di Milwaukee protagonista di una delle serie Netflix più acclamate del momento, perché se così non fosse la formula magica messa a punto da produttori e magnati televisivi non starebbe funzionando.
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